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lunedì 22 ottobre 2012



BOARDWALK EMPIRE

Fenomenologia di una serie di culto

Mentre vi ricordo che è cosa buona e giusta leggere anche i post che precedono questo, se ancora non l'avete fatto, torno a queste pagine che mi risparmiano una lunga e costosa psicoterapia per parlare di una serie che mi fa impazzire (tranquilli: ce n'è per tutti i gusti, ne seguo una decina in contemporanea con l'America o l'Inghilterra, compresi un bel po' di guilty pleasures). E non è nemmeno di genere horror o fantastico, anche se di scene di sangue, budella e torture ce ne sono in abbondanza.  

Boardwalk Empire di Terence Winter è un meraviglioso ritratto, tra invenzione e realtà, dell'America degli anni Venti, quella bella e terribile del Volstead Act (1919-1933), ovvero del Proibizionismo. L'era di Francis e Zelda Scott Fitzgerald, delle maschiette, degli speakeasies e naturalmente dei padroni delle città, i gangster italiani, ebrei e irlandesi: Al Capone, Johnny Torrio, Lucky Luciano, Arnold Rothstein, Meyer Lansky, Joe Masseria, Dean O'Banion. L'epoca di Eddie Cantor, dei fantasmagorici musical di Busby Berkeley, di James Cagney e Paul Muni, dei pugni di Jack Dempsey, delle ragazze delle Ziegfeld Follies, dei party scatenati, dei primi porno, degli scandali hollywoodiani, del nascente star-system, delle suffragette e della presidenza di Thomas Woodrow Wilson, Warren G. Harding e Calvin Coolidge. Un periodo storico che ha dato tanto al cinema ma che, in maniera così completa come in Boardwalk Empire, non avevo mai visto rappresentata.

Questa serie memorabile è riuscita a intrecciare alla perfezione il romantico glamour delle ambientazioni e dei costumi con la spietata realtà di un mondo senza regole e morale da cui – dopo i massacri della prima guerra mondiale e prima della Grande Depressione – si è sviluppata l'era capitalistica moderna. Dagli accordi tra i gangster e i politici corrotti per trasportare gli alcolici di contrabbando nacquero strade e opere pubbliche e fiorì un'industria sotterranea che arricchì migliaia di persone a discapito di milioni, ma che fece prosperare le fortune di una città come Atlantic City, di pari passo con l'aumentare dell'illegalità.

Al centro di Boardwalk Empire c'è un personaggio reale, romanzato come gli altri per esigenze di fiction: Nucky Thompson, il tesoriere della città, il cui vero nome era Nucky Johnson. Che si sappia, il vero Enoch non uccise direttamente nessuno, ma fu comunque un criminale, figura di grande spicco e potente influenza politica nel Partito Repubblicano, che si arricchì grazie al commercio di alcolici e alla gestione dei bordelli facendo della sua città l'unico posto in America in cui ci si divertiva e si beveva alla luce del sole in spregio alla legge.
Enoch "Nucky" Johnson

Arrivata alla terza stagione, la serie prodotta da Martin Scorsese e Mark Wahlberg non ha sbagliato un colpo, diventando sempre più ricca, complessa e corale. Nei suoi 2 anni di vita e nelle prime 5, splendide puntate della terza serie, ha infranto molte barriere e toccato, mai in modo superficiale, una marea di temi: fatti fuori due dei protagonisti, ne ha – purtroppo – freddato un altro nel primo episodio della terza stagione, ha parlato di incesto, sadismo, violenza, inganno, terrorismo irlandese, emancipazione femminile, camarille politiche e corruzione su vasta scala, e ha mostrato (siamo alla HBO, casa anche del Trono di spade) una grande quantità di atti sessuali, nudi frontali femminili e anche - vivaddio - qualche sedere maschile.
Cardine di ogni serie sono gli interpreti che gli danno vita, e qua Boardwalk Empire non ha rivali. A partire da Steve Buscemi, che ha trovato finalmente il ruolo da protagonista che gli mancava, magnetico e ambiguo nel ruolo di Thompson, meritano tutti di essere citati: a parte Michael Pitt che ci ha lasciato alla fine della seconda stagione, Gretchen Mol nei panni di Gillian è una madre confusa e indecifrabile, Kelly McDonald, in quelli di Margaret,  apparentemente indifesa emigrata irlandese, sposa Thompson ma non riesce a possederlo, e rimane scomodamente sospesa tra la fede cattolica e la consapevolezza di andare a letto col diavolo; lo stratosferico Michael Shannon si trasforma da ferreo agente anti proibizionismo a bigamo e bugiardo venditore di ferri da stiro: tormentato, posseduto, minaccioso e patetico, è un gigantesco bambino tremante che infrange tutte le leggi, umane e religiose, in cui crede.  Ci sono poi il fantastico Jack Huston, figlio e nipote d'arte, che sacrifica la sua bellezza sfoderando una performance da brivido con sola mezza faccia e mezza voce nel ruolo del fedele Richard,  il cecchino veterano di guerra sfigurato, e Shea Wigham nei panni del fratello meno dotato di Thompson, solido e tenace come un mastino.
E ancora, i magnifici gangster: Michael Stuhlbarg (ma ve lo ricordate nel ruolo del povero "Giobbe" in A Serious Man dei Coen?) è un Rothstein pallido, elegante, mellifluo e imperscrutabile, e sono state per me rivelazioni assolute Paul Sparks (Mickey "giggling" Doyle), Michael Kenneth Williams (il suo gangster nero, Chalky White, è in assoluto uno dei personaggi più belli della serie), Vincent Piazza, uno splendido e odioso Lucky Luciano (il suo colloquio in dialetto con il Joe Masseria di Ivo Nandi nel quarto episodio è da antologia) e l'inglese Stephen Graham, irriconoscibile e credibilissimo nel ruolo di Al Capone, senza alcuna pietà coi suoi pari, ma tenerissimo e commovente col figlio sordo. E' perfetto Stephen De Rosa nel suo ritratto di Eddie Cantor e ci piace moltissimo Bobby Cannavale, recente innesto nel ruolo del suscettibile mafioso psicotico, kinky e flamboyant Gyp Rosetti. Senza spoiler, basti dire che il finale del quinto episodio, di cui è protagonista, è cinema puro, ricco di sangue, violenza e furore. 
  
Quando una serie è in grado di divertire, scioccare e commuovere fino alle lacrime, quando la cura riversata in un prodotto è tanta e tale da essere visibile, episodio dopo episodio, nel più minimo dettaglio di ogni singolo costume e acconciatura, nella colonna sonora, nella regia mai banale e in ogni sorriso, smorfia, rictus sul volto degli attori, ci troviamo di fronte a qualcosa di più del puro entertainment, a un'opera che sa concedersi, e regalarci, anche il lusso di essere lenta, operatic, forte come un whisky non annacquato. Una serie per intenditori, in cui ogni colpo di pistola porta avanti la storia e non la sostituisce.














1 commento:

Michelle Pate' ha detto...

Dopo aver letto questa recensione credo che iniziero' a vedere anche questa serie. Mi hai convinta!