Cerca nel blog

domenica 30 aprile 2023

L'ARTE E GLI ARTISTI CI SALVERANNO

RIFLESSIONI SU DUE SPETTACOLI TEATRALI


 


 Alla mia non più tenera età – che cerco comunque di affrontare con la stessa giovanile freschezza di sempre, se non nel corpo, di sicuro nel cuore e nello spirito – mi sono riavvicinata allo spettacolo dal vivo, che ho frequentato tantissimo in gioventù e un po' meno in età adulta, per i vari casini della vita. La lettura rimane il mio spazio privilegiato di gioia in solitaria e col cinema ho avuto una serie di alti e bassi, un rapporto a volte di odio/amore, anche se resta insieme ai libri la mia principale passione. Quest'anno ho assistito a spettacoli piccoli come dimensioni ma bellissimi e stimolanti, riscoprendo la Roma dei teatri off, vitale più che mai, con attori straordinari (come Tommaso Ragno e Iaia Forte) che si esibiscono davanti a un pubblico ristretto per il puro piacere di farlo e certo non per guadagno. Un po' come quando, giovanissima, il mio fidanzato dell'epoca mi portò a vedere Molly cara, con quella grande attrice di Piera Degli Esposti, dove mi ritrovai seduta col cuore che mi batteva accanto a Pino Micol, una delle mie principali cotte artistiche dell'epoca, dopo il Cyrano di Maurizio Scaparro, visto in pre-prima al Teatro del Giglio di Lucca, dove ancora vivevo. Tagliando corto - con gli aneddoti potrei riempire un libro e probabilmente anche più di uno - torno all'oggi, per parlare di due spettacoli diversissimi tra loro, tra i molti che ho visto quest'anno, uniti per me da un comune denominatore.

ESEMPIO 1: MENO DI DUE


Nel marzo scorso sono andata in uno di quei teatri di cui dicevo prima, Carrozzerie n.o.t. (non guidando, spendo sempre più di taxi che di biglietto...) a vedere uno spettacolo di Teatrodilina scritto da Francesco Lagi, Meno di due. Me ne aveva parlato, in occasione della presentazione alla stampa della seconda stagione di Christian, un attore che ammiro moltissimo, Francesco Colella, ed essenzialmente sono andata per avere il piacere, finalmente, di vederlo su uno spazio che gli è connaturato - visto che c'è nato come artista - come il palcoscenico. Il teatro ha questo di bello rispetto al cinema: gli attori sono lì, li puoi sentire respirare, assisti col fiato sospeso a una messinscena che è come la vita, a volte peggio e altre meglio, ridi e ti emozioni di fronte a storie vecchie che grazie alla magia dello spettacolo si rinnovano ogni volta o che, come stavolta, sono interamente inedite. Dire che è stata una serata speciale è dir poco: sono uscita allegra e contenta come da tempo non mi accadeva dopo aver visto una piccola pièce che però mi ha parlato, tanto che ci ho messo un po' prima di decidermi a scriverne.



In scena, inizialmente, ci sono solo due attori, Francesco Colella e Anna Bellato (a cui prima della fine se ne aggiunge un terzo, Leonardo Maddalena), che diventano immediatamente persone in cui possiamo riconoscerci. Si comincia con un incontro in una stazione tra questi due sconosciuti, impacciato e denso di timidezze e imbarazzi come molte prime volte, in cui parlando capita di interrompersi a vicenda e perfino la scelta di qualcosa da bere può dare vita a goffe gag. Lei è andata a prendere lui, arrivato col treno. Scopriremo presto chi sono questi due adulti non più giovanissimi, ma cosa possono avere in comune un professore calabrese di latino e greco, separato e apprensivo, e una donna single veneta (è nella sua regione che lui è arrivato dopo un interminabile viaggio), titolare di un'azienda di mangimi per animali, tanto demodé da innaffiarsi del profumo d'obbligo degli anni Settanta, l'onnipresente patchouli? La solitudine e la mancanza di un partner con cui condividere la vita è il loro comune denominatore. Quel vuoto che al giorno d'oggi molti colmano coi rapporti spesso ingannevoli e a volte gratificanti sui social, che gli adulti usano in modo spesso inadeguato e che in una società come la nostra ci permettono di entrare in contatto con persone che non incontreremmo mai, allontanandoci al tempo stesso dalla possibilità di incontri reali.

(Nota personale: tanti anni fa è successo anche alla sottoscritta di intraprendere una storia nata sul web, un errore che ancora non mi perdono, ma conosco altri, tra cui uno sceneggiatore di fumetti della mia età, padre di figli adulti, che ha felicemente sposato una donna conosciuta su Twitter, dopo aver discusso animatamente con lei sul social). Per tornare ai nostri protagonisti, lui ha affittato un bed & breakfast dalle parti di lei, perché in queste cose non si può mai sapere, meglio andarci piano. Il loro, in auto, è un viaggio di conoscenza, dove gli imbarazzi continuano, tra osservazioni del paesaggio, commenti sulla guida di lei e telefonate a lui in merito ad un pigiama party a cui la figlia vuole partecipare. C'è poi la visita ad una grotta dove qualcuno in epoche remote ha tracciato un graffito di due persone, forse un uomo e una donna, accanto a un fuoco. Lì, nel silenzio e nel buio come i loro omologhi delle caverne, i due provano l'effetto eco, che funziona a fasi alterne, e lei, come è tipico di noi donne, va nel panico quando perde le chiavi della macchina. Quando arrivano finalmente a casa di lei (che a un certo punto gli ha detto anche che dorme coi suoi cani), la tensione inizia a sciogliersi, i due si mettono in pantofole e, complice uno scatenato ballo improvvisato (uno dei momenti più divertenti dello spettacolo in cui si ride molto: Colella è un gran ballerino, ha dei tempi comici perfetti ed è perfettamente affiatato con Bellato), sembra che stiano per baciarsi. 

 E proprio allora arriva il terzo incomodo, che ha le chiavi di casa e si comporta come un marito tradito e geloso. L'imbarazzo raggiunge vette altissime quando l'intruso racconta che quella casa è il suo rifugio da una famiglia con troppi figli rumorosi, e lei per lui è una specie di moglie surrogata, tanto che è solito appisolarsi sul suo divano al ticchettio dei ferri da calza con cui la donna si rilassa. Quando l'intruso se ne va, dopo aver rivelato il peso di un'altra solitudine, i due si chiedono a vicenda se si piacciono. Galante, o forse solo poco sincero o più disposto ad accontenarsi, lui le risponde di sì, mentre lei invece dice “non tanto”. Ma quando l'uomo si prepara ad andare al bed & breakfast per ripartire il mattino dopo, inizia a piovere e lei – nonostante quello che gli ha appena detto – gli chiede se resta a dormire lì. Sul sì di lui finisce lo spettacolo, lasciandoci in sospeso sul futuro di questo bizzarro incontro.

Una storia in apparenza semplice ma profonda, una drammaturgia che con malinconica leggerezza parla di noi, del nostro presente sempre più isolato e della solitudine del cuore, quando dopo un matrimonio finito o a conclusione di una vita di incontri sbagliati si può cedere alla tentazione (molti/e lo fanno) di dire comunque di sì, per essere insieme più di uno ma pur sempre meno di due. Perché l'amore non è l'aggrapparsi ciecamente a una zattera per non affogare, anche se oggi sembriamo averlo tutti dimenticato. Tutto questo raccontato tra le righe con grazia e delicatezza, coi due protagonisti (più uno) che non hanno oggetti di scena, su un pavimento disseminato di foglie morte, parole e suggestioni sonore che ci fanno vedere quello che succede come se stessimo assistendo a un film. Per me è stata la prima volta col Teatrodilina - dove lavorano, da anni, anche altri attori di talento come Silvia D'Amico - ma sicuramente non sarà l'ultima.

ESEMPIO 2: LA VEDOVA ALLEGRA DELLA COMPAGNIA GUARNERBROS


Anche in questo caso devo partire dall'aneddotica personale. L'anno che sono venuta a vivere a Roma, nel 1990, ho vissuto in un appartamento a via di Donna Olimpia con Luigi, il mio compagno del tempo e futuro padre di mia figlia, in subaffitto col suo compagno di studi al Centro Sperimentale di Cinematografia Ferdinando Vicentini Orgnani, oggi regista, e Annalena Lombardi, attrice di grande bellezza, simpatia e talento, dotata di grande verve e di una splendida voce, soubrette in una Domenica In con Pippo Baudo, che si sarebbe imposta come interprete di operette con Sandro Massimini prima e con Edoardo Guarnera poi. Col tempo, ci siamo perse di vista ma mai del tutto e l'ho rivista in scena diverse volte. Poi, tra la pandemia, i figli e il caos delle vite di noi precari trapiantati a Roma, non ci siamo viste per qualche anno, fino a che giorni fa lei mi ha mandato su whatsapp l'annuncio della messa in scena de La vedova allegra, la celebre operetta di Franz Lehar, al Teatro Manzoni, per soli tre giorni. 

Chi mi conosce sa che sono donna dai molteplici interessi e dalle passioni in apparenza contrastanti: amo l'horror e mi piace indagare il lato oscuro dell'umanità, ma adoro i musical classici e le operette (sull'hard disk conservo tutte quelle televisive di Vito Molinari). Anche se la vita mi ha tolto molte (tutte le?) illusioni in merito, sono rimasta dentro la ragazzetta che sognava di incontrare uno come Gene Kelly, col suo smagliante sorriso, o un ballerino come Fred Astaire capace di farti volteggiare con leggerezza sulle asperità della vita. Dato il mio fisico "ingombrante", non me la sono mai sentita di dedicarmi al ballo ma per un lungo periodo ricordo che ho desiderato di imparare il tip tap e ho sempre ammirato moltissimo gli artisti capaci di cantare e, all'occorrenza, di ballare.

Tornando a bomba dopo le divagazioni, sono stata felicissima di andare a vedere La vedova allegra, una creatura di Edoardo Guarnera scomparso purtroppo prematuramente lo scorso ottobre e portata avanti con incredibile cura e devozione dai suoi fratelli, il mezzosoprano Mariella Guarnera, che interpreta Valencienne ed ha adattato il testo, e il baritono Piero Guarnera, che sostituisce il fratello nel ruolo di Danilo Danilovitch. In più, c'è anche la figlia di Mariella, Michela Pavese, che ricopre un doppio ruolo ed è autrice di una bella coreografia. La storia della bella ereditiera Hanna Glawari, interpretata da una perfetta e solare Annalena Lombardi, brillante come la ricordavo e forse anche di più, dovreste conoscerla tutti, sennò per una volta vi rimando a Wikipedia, ma questa versione osa la contaminazione, e con successo: così a un certo punto le ballerine del Moulin Rouge, le Grisettes, danno vita a una coinvolgente coreografia sulle note di All That Jazz, mentre ospite d'onore del ballo nella residenza dell'ambasciatore dell'immaginario Pontevedro a Parigi, arriva Giuseppe Verdi, la cui moglie, Giuseppina Strepponi, delizia il pubblico con l'aria “Sempre libera degg'io” (lo so che state pensando a Frankenstein Jr., maliziosi!) da La Traviata

Mondi lontani tra loro che si incontrano e che appartengono allo stesso universo del sogno e dell'arte. Più di 20 attori e cantanti in scena (citarne uno sarebbe fare un torto a tutti gli altri), un corpo di ballo che esegue anche uno scatenato cancan e un pubblico trasversale (i numerosi bambini presenti ridevano e si divertivano e siamo certi che questo impatto col mondo teatrale resterà impresso nella loro memoria), ma soprattutto l'idea di un vero gruppo dal grande affiatamento anche umano. Anche qua ci siamo divertiti  tutti insieme, cantando sottovoce le celebri arie e battendo le mani a tempo, fino al bellissimo finale. Abbiamo assistito a uno spettacolo difficile e faticoso per chi lo fa con tanta passione, che meriterebbe palchi e mezzi più grandi e che riesce ad onorare non solo la memoria di chi non c'è più, ma anche a gettare un ponte tra le musiche e le armonie del passato e la sensibilità contemporanea, a conferma che l'arte e gli artisti sono l'unica cura che abbiamo, da sempre, per i mali del mondo e per questo motivo dovremmo esser loro riconoscenti, a differenza delle anime aride dei nostri politici che continuano a penalizzare lo spettacolo e la cultura, indispensabili nutrimenti dell'anima.


lunedì 2 novembre 2020

 IL MIO PROIETTI

 

Stamani mi sono svegliata con una di quelle notizie che ti stendono: Gigi Proietti ci ha lasciato il giorno del suo 80esimo compleanno, quando tutti ci preparavamo a fargli gli auguri e a innalzare peana per la lieta ricorrenza. Ci ha fatto un ultimo, beffardo scherzo, sottraendosi ai festeggiamenti e andando via alla chetichella, dopo aver raccolto gli ultimi applausi. Proprio ieri, a Lucca, avevo sfogliato in libreria sorridendo il suo Decamerino. Non per il libro in sé, anche se divertente, ma perché – e sicuramente questo valeva per tutti - quando pensavi a Proietti, quando all'improvviso ti venivano in mente il suo viso, la sua voce e il suo sorriso, senza nemmeno accorgertene cominciavi a sorridere, e ti si apriva davanti agli occhi una cornucopia di ricordi, tutti belli e divertenti. Mentre rientravo a Roma, sul treno che mi portava a Firenze, due signore perfino più grandi di me ne parlavano. Con dolore. “Lo adoravo” ha detto una. Ed esprimevano stupore per questo addio così improvviso e così ingiusto. Poi, nel treno semivuoto che mi riportava nella Roma amata e odiata che è ormai casa mia, pensavo che stavo rientrando in una città più vuota e più triste: anche il cielo sembrava corrucciato e spento e perfino il sole, che qua splende anche quando altrove diluvia, si è rifiutato di brillare. L'impressione era che anche loro fossero un po' arrabbiati con lui, che per la prima volta ha deciso di farci piangere.

Scelgo di scriverne sul mio blog perché voglio raccontare appunto “il mio” Proietti, perché ognuno ha il suo. Quando un artista è così grande ed eclettico, ogni generazione lo ama per qualcosa di diverso. Ho letto in rete omaggi di maniera e altri commoventi (il più bello e toccante quello di Marco Damilano sull'Espresso), un profluvio di parole nate da sentimenti sinceri ed aride elencazioni scritte per dovere di cronaca, in cui il cronista non ha avuto difficoltà a pescare ricordi, documenti e testimonianze, perché Proietti non era solo un genio multiforme ma era anche generoso, si dava allo stremo, negli spettacoli e nelle interviste, non si concedeva mai ai salotti ma non perdeva occasione di illuminarci la mente con le sue riflessioni sempre dritte al punto, in questo vero intellettuale

 


 

Il mio incontro con Gigi Proietti (che tenerezza dolce in quel diminutivo, come se appartenesse davvero a tutti, ci fosse amico, fratello, parente) avvenne quando avevo 13 anni, in televisione, nella Canzonissima del 1971, quella della mitica sigla "Chissà se va" cantata dalla Carrà, e con l'indimenticabile Corrado (e Noschese). Nella stessa puntata, pensate un po', c'erano il leggendario Jacques Tati e Modugno che cantava “La lontananza”. Avevo 13 anni e mi colpì moltissimo questo giovanotto barbuto che con quell'altro “mostro” di Renato Rascel si scatenava in un numero coi coperchi, tratto da “Alleluja brava gente”. Anzi, ora che ci penso meglio, forse lo avevo già visto prima, rendendomene conto però dopo, ne Il circolo Pickwick di quell'altro fantastico personaggio che era Ugo Gregoretti, dove interpretava il truffatore Jingle. Poi ci fu il triplo ruolo di Pattume, Colombino e La morte in Brancaleone alle crociate di Mario Monicelli, col suo grande amico Vittorio Gassman, con cui avrebbe lavorato di nuovo in La Tosca, del 1973, improvvisando poi con lui nel ruolo del fratello una memorabile litigata nel 1978, in Un matrimonio di Robert Altman.

Nel 1976 mi innamorai del Casanova di Federico Fellini, dove la sua splendida voce – che nello stesso anno avrei sentito gridare “Adrianaaaaa” in Rocky - doppiava Donald Sutherland, nobilitandone la performance. Nel 1978, finito il liceo a Lucca, seguii un primo fidanzato a Roma, dove iniziai a frequentare l'università. Non riuscìì purtroppo a vedere A me gli occhi please (recuperato in seguito) ma a lui – e gliene sono grata – grande amante del teatro, devo la visione di una stagione indimenticabile della migliore prosa italiana sperimentale e non, dal divertente e spettacolare S.A.D.E. ovvero il libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina: spettacolo in due aberrazioni al teatro Tenda con Carmelo Bene (un altro suo sodale) e Cosimo Cinieri, e quella meraviglia di Molly cara con Piera degli Esposti (in un teatro off con le panche di legno dove con grande emozione mi trovai seduta accanto alla mia cotta celebre del momento, Pino Micol). Con quel fidanzato andai anche a vedere al Brancaccio (che poi Gigi avrebbe diretto), La commedia di Gaetanaccio di Luigi Magni, con Luisa De Santis e Daria Nicolodi, dove lui era un personaggio molto romano, un burattinaio morto di fame in seguito a un editto che sembra oggi profetico, che diceva: “Vengono soppresse tutte quelle attività culturali le quali che, quando va bene, non servono a gnente”. Canzoni come “Patisce er core mio” e “Tango della morte” le so ancora a memoria, visto che comprai subito la musicassetta delle canzoni, tutte bellissime, innamorata della voce di Proietti. 

 


 E dopo Bordella, il cult Febbre da cavallo (amato da tutti ma soprattutto dai romani) e Casotto, dove recitò con una giovanissima Jodie Foster, per la tv fu Fregoli, in uno sceneggiato dove ebbe modo di rifulgere con la sua abilità trasformistica e la sua straordinaria mimica comica (in famiglia divenne mitica la battuta “e ora... il number del palloncino”!). Come poi non restare ammirati e scompisciarsi dal ridere di fronte al meraviglioso e accorato grammelot napoletano inventato dal suo accaloratissimo Curtatone in FF.SS., di un suo altro grande amico e compagno di marachelle, Renzo Arbore, nei cui programmi fu spesso ospite (e viceversa). Vedere questi due ironici, intelligenti, irriverenti ed eterni giovanotti ricordare insieme le esperienze dei night con l'inglese maccheronico per gli americani, il contrabbasso finto e le canzoni col doppio senso è una delle cose più belle e divertenti che si siano mai viste in tv.

Per quanto lo sapessimo tutti legatissimo alla compagna Sagitta, con cui è stato unito per tutta la vita, non potevamo noi ragazze non sognare di incontrare un compsgno così affascinante e simpatico. Nel 1981 mi innamorai di un uomo che aveva 10 anni più di me e che a prima vista avevo giudicato un deficiente: a conquistarmi fu il suo irresistibile sorriso alla Proietti. Purtroppo per me, le somiglianze, fisiche e caratteriali, finivano lì. Nel 1992, dopo aver visto Aladdin in originale con la voce di Robin Williams, pensai che nessuno sarebbe stato in grado di farne una versione italiana, se non lui, che fu all'altezza dell'originale grazie all'incredibile velocità del suo eloquio, capace di star dietro ai funambolismi vocali di un attore leggendario. E a pensarci, per fortuna senza l'autolesionismo, le droghe e gli stravizi, Robin e Gigi si somigliavano molto, per generosità, talento e felicità che hanno regalato al pubblico. 

 


Pur non avendo seguito la sua carriera televisiva più recente e nazional popolare, che gli ha conquistato un nuovo pubblico, e restando a volte un po' dispiaciuta nel vederlo sprecarsi in certi film, l'ho molto amato ne Il premio di Alessandro Gassmann, dove interpretava suo padre, un eccentrico scrittore premiato col Nobel. In quell'unica occasione sperai di poterlo finalmente intervistare, sia pure per i soliti maledetti 5 minuti dei junkets televisivi. Poco prima del mio turno, però, il grande Gigi, non ricordo se perché stanco o poco in forma, se ne andò, e dunque questo sogno non l'ho mai potuto realizzare. Vedendo il suo Cavalli di battaglia mi sono meravigliata ancora della sua inesauribile energia, della sua memoria, del suo essere ancora e sempre mattatore come l'amico Gassman, capace di portare avanti all'infinito una storia, uno sketch (sono morta dal ridere con quello della saùna), di cantare, intrattenere, come se invece di 80 anni o quasi ne avesse ancora 30. Ma il cuore era stanco, e nessuno lo sapeva. Forse il dispiacere di dover star fermo, i mille progetti arrestati da questo immondo virus hanno gravato troppo sul grande cuore di quest'artista meraviglioso, che ha riportato in vita Petrolini e ha saputo recitare Shakespeare e Pirandello, ma anche raccontare le barzellette, che ci ha illuminato la via con la sua saggezza, la sua intelligenza e la sua dolcezza. Come ha scritto qualcuno, sono felice di essere vissuta nella stessa epoca di quest'uomo buono e giusto, a cui tutti noi volevamo un gran bene, qualunque sia stato il Proietti di ognuno di noi. Oggi, in lacrime, non possiamo che dire a colui che è stato uno dei nostri parenti più cari: grazie di essere esistito, Gigi, e di averci dato tanta gioia.

sabato 5 settembre 2020

IL MIO AMICO JOSE' DE ARCANGELO







Eccomi qua. Oggi è il 5 settembre, giorno del mio compleanno. A una certa età si tende a smettere di festeggiare gli anni e a celebrare la sopravvivenza: ci pensano gli amici (veri) coi loro messaggi a ricordarti quanto sei stata fortunata ad essere arrivata a questa meta (62, lo posso anche dire), pur con tutti i problemi che rendono la vita complicata, faticosa eppure terribilmente veloce. È ovvio che tra i chili di troppo, le rughe e i sogni di gloria ormai dietro le spalle una non si riconosca più, ma per fortuna ci sono le amiche (nel mio caso) di vecchia e vecchissima data a sapere chi sei, a volerti bene per come sei e a ricordarti ancora com'eri. Col tempo la leggerezza è diminuita ed è sempre più difficile ridere del presente e di se stessi, come un tempo veniva naturale fare. Oggi poi mi sento ancora meno incline del solito a celebrare questa ricorrenza. Un anno fa – e io non lo sapevo, lo avrei saputo solo il giorno dopo – il mio amico e collega José de Arcangelo - che tra l'altro seguiva e commentava con arguzia questo mio discontinuo blog – mi ha fatto lo scherzo atroce di andarsene all'improvviso, quando solo pochi giorni prima, io da poco tornata da una felice settimana a Praga, ci eravamo sentiti per telefono e dati appuntamento, al solito, alla ripresa delle attività stampa di lì a pochi giorni.
Quindi adesso il mio compleanno è legato indissolubilmente al giorno della scomparsa di una delle poche persone nel mio ambiente di lavoro a cui abbia davvero voluto bene e che me ne abbia voluto.
Ci siamo conosciuti, credo, a qualche festival, nei primi anni Novanta: non ricordo se Torino, Riminicinema o Cattolica, anche se li abbiamo fatti tutti insieme divertendoci un mondo. Probabile che ci abbia fatto incontrare nel 1990 Giovanna Arrighi, anche lei scomparsa prematuramente, la prima persona che ho conosciuto nell'ambiente quando mi sono trasferita a Roma. José era un amico vero. Nel 1996 Marina Misiti conoscendo la nostra passione per il genere ci chiese di scrivere insieme un libro sull'horror per Theoria, proprio quel due volte infelice Ciak si trema che dà il titolo a questo blog. Poi accadde qualcosa che non mi sembra giusto raccontare e io fui costretta a scrivere in dieci giorni anche la parte che sarebbe spettata a lui. Un'altra persona si sarebbe offesa, mi avrebbe messo il muso, ci sarebbe rimasta male. Lui, dopo un comprensibile dispiacere iniziale, no. Perché l'amicizia per lui era più forte di qualunque cosa. Abbiamo condiviso tanto, momenti belli e brutti e fisicamente pesanti come duei traslochi, il mio e il suo, i festival quando erano belli e goderecci, e ho tante allegre foto in testimonianza di queste esperienze.
Ricordo anche le feste insieme, a base di empanadas, balli e carni argentine e le ore passate a discutere del vecchio cinema hollywoodiano, ma anche del nuovo, su cui spesso ci trovavamo in perfetta accordo. Lui era un'enciclopedia vivente, non aveva bisogno di internet: sul cinema classico sapeva tutto, attori, attrici, storia, titoli. L'agosto scorso, il 12, eravamo a cena spensierati a casa di un amico, una casa che da allora ha lasciato, nei pressi di piazza Vittorio: in terrazza, dopo cena, a fumare, ridere, raccontarci e star bene, per una volta felici di essere a Roma (lui che per motivi economici si era dovuto trasferire a Cerveteri, con enormi problemi di stress per gli spostamenti). Poi era venuto una sera a San Lorenzo, per un aperitivo all'Apartment e poi da me, dove avevamo sfogliato insieme una rivista hollywoodiana degli anni Cinquanta che avevo trovato qua al mercatino.
Con lui potevo sfogarmi anche delle ingiustizie e frustrazioni sul lavoro: ne aveva subite talmente tante che bastavano due parole per comprenderci. Ma per lo più si rideva e si scherzava, e proprio quando, dopo due anni terribili senza un euro per campare, grazie alla pensione finalmente ottenuta era tornato a viaggiare, a visitare i parenti argentini regolarmente e a comprarsi quello che gli serviva, nonché a pagare il mutuo per la casa che aveva con fatica acquistato, l'ultima beffa.
Sono rimasta male per non averlo saputo prima e non esserci stata, per non averlo sentito un'ultima volta al telefono, e peggio ancora per il dopo, con la famiglia lontana e assente e il tanto tempo passato prima di potergli dare sepoltura. Da allora andare alle proiezioni – prima ancora dell'arrivo di questa peste del covid, che almeno lui si è risparmiato – è diventato anche meno piacevole di quanto già non lo fosse prima: sapere che per quanto a lungo gli avrei potuto tenere il posto, non sarebbe mai arrivato trafelato ad occuparlo mi fa ancora male. Sembra stupido ma mi ha parzialmente consolato sapere che l'ultimo film che ha visto e adorato come me è stato C'era una volta... a Hollywood di Tarantino. Sento ancora la sua voce pacata con quell'inconfondibile accento, la sua risata, le sue battute a volte surreali a cui era il primo a ridere, e so che José de Arcangelo dalla vita, dai colleghi e dall'ambiente non ha avuto il giusto riconoscimento per la sua bontà e la sua incapacità a farsi valere nel mondo stronzo, ignorante e prepotente che qualcuno (“grazie” Berlusconi) ha creato 40 anni fa e in cui entrambi ci sentivamo a disagio.
Adesso è passato un anno e ancora non mi par vero e voglio ricordarlo proprio oggi, quando non riceverò più i suoi auguri, sorridente come in questa foto di un finto inverno con neve a Cinecittà che gli scattai durante una visita su un set nel 2013. Sono certa che dovunque si trovi adesso sta ancora sorridendo e si vede un sacco di bei film con attrici meravigliose, di quelle che oggi non nascono più. Ciao caro José e grazie per esser stato un amico disinteressato e sincero!
P.S. Ho ancora la rosa di Gerico che mi hai regalato, unico fiore capace di sopravvivere a tutto e anche al mio pollice nero! A volte si chiude ma con l'acqua si riapre e vederla mi fa pensare a te. 

mercoledì 20 maggio 2020

 DARK SHADOWS

 FOCUS SU UNA SERIE LEGGENDARIA




 My name is Victoria Winters...” comincia così, con la voce off di Alexandra Moltke, dopo l'annuncio del ciak, del numero della puntata e della data, fatto dallo speaker direttamente sul set, ogni episodio di Dark Shadows, la soap gotica creata nel 1966 dalla mente geniale del regista e produttore Dan Curtis. Comincia senza sapere che diventerà una leggenda, come una soap-opera qualsiasi, con l'arrivo di una giovanissima governante, Vicky Winters, chiamata a istruire un ragazzino pestifero in una ricca, antica e misteriosa famiglia, i Collins, in una cittadina di pescatori del Maine che in loro onore si chiama Collinsport. Nella prima puntata conosciamo la bella e volitiva Elizabeth "Liz" Stoddard Collins, che da 18 anni, da quando il marito se n'è andato, non mette mai piede fuori da quella lugubre e antica dimora sulla scogliera, chiamata ovviamente Collinwood, dove il vento soffia sempre triste e minaccioso e spesso infuria la tempesta. Insieme a miss Winters, che arriva da un orfanotrofio di New York per prendere servizio (e non si capirà mai perché la signora Collins abbia voluto proprio lei, uno dei misteri irrisolti della serie), arriva con lo stesso treno Burke Devlin, un uomo che ha passato cinque anni in carcere ingiustamente e torna ricco come il conte di Montecristo e in cerca di vendetta proprio sul fratello di Elizabeth, Roger, snob e senza scrupoli, padre di David, che detesta, e che vive sostanzialmente alle spalle della sorella. E poi c'è la figlia di Elizabeth, Carolyn Stoddard, bellissima, biondissima e capricciosa, che fa ammattire il povero Joe Haskell, innamorato di lei, ma di una classe decisamente inferiore.

ELIZABETH STODDARD COLLINS, ROGER COLLINS E VICKY WINTERS
Inizialmente Dark Shadows si dipana, nei venti minuti di ogni puntata, con una certa lentezza, ma ci affezioniamo subito agli attori, che hanno voci bellissime e sono molto credibili nel rappresentare il carattere dei loro personaggi, per quanto quasi tutti - alcuni più di altri - si impappinino spesso. Ed è questo un altro elemento che ci fa subito affezionare alla serie: il ritmo di produzione velocissimo e da "buona la prima" ha lasciato tracce memorabili. Non solo gli spassosi errori degli attori che leggono le battute sul gobbo, ma strani rumori metallici, tombe che si muovono, pareti che si spostano, elementi di scenografia che cadono, porte che si ostinano a restare chiuse nonostante l'attore cerchi di uscire di scena, colpi di tosse e sussurri di provenienza ignota... tutto questo, a differenza di quel che forse speravano gli attori, non è scomparso e solo in seguito è stato estrapolato e raccolto nei cosiddetti bloopers, ma con gran divertimento di chi le vede è rimasto all'interno delle puntate, perché i rifacimenti erano considerati troppo costosi per un programma pomeridiano. Nonostante questo, la qualità della scrittura e della recitazione, il suggestivo tema musicale, gli effetti sonori e la fotografia rendono pregiato un prodotto realizzato in modo frettoloso perfino per gli standard dell'epoca. E quando lo si comincia a vedere, come le ciliegie, un episodio tira l'altro.


MAGGIE EVANS E VICKY WINTERS
Inizia come una soap, dicevamo, con poche location tra cui il mitico e unico bar ritrovo del posto, il Blue Whale, dove il jukebox suona sempre una sola musichetta pseudo yé yé (con a volte qualche azzardato accenno di Ciliegi Rosa o Brazil), le ragazze dai capelli supercotonati indossano minigonne e stivali e gli ubriaconi del luogo si ritrovano per affogare i propri dispiaceri. Come il padre di Maggie, la gentile e curiosa cameriera dell'unica locanda della città, che è il pittore fallito, vedovo e sopraffatto dai sensi di colpa Sam Evans. A proposito, si beve tantissimo in questa serie: nel salotto di Collinwood un'elegante bottiglia sempre piena di brandy è l'abbeveratoio serale di Roger Collins e dei numerosi ospiti, più o meno benvenuti, della casa. E se Sam Evans è un vero alcolizzato, lo era purtroppo anche il bravissimo attore che lo interpretava, David Ford, morto a soli 57 anni di infarto, dopo una vita a combattere con questa dipendenza. Ford aveva anche sposato nel 1966 Nancy Barrett, la bella attrice che interpretava Carolyn Stoddard, da cui lo dividevano 18 anni di età, ma il matrimonio era durato solo due anni. Anche Mitchell Ryan, che oggi ha 94 anni e dopo essersi disintossicato ha avuto una brillante carriera cinematografica, alzava spesso il gomito. In alcuni episodi il suo stato di alterazione è evidente e a un certo punto gli è costato il licenziamento dalla serie e l'affidamento ad altri attori del personaggio di Burke Devlin (di sicuro il nome più citato e col maggior numero di intonazioni nelle prime cento puntate).

BURKE DEVLIN
L'aneddotica che circonda Dark Shadows è ricchissima: la dolce Alexandra Moltke a un certo punto lasciò la serie per mettere su famiglia (e venne sostituita da Betsy Durkin e Carolin Groves, prima che Vicky Winters fosse fatta sparire definitivamente). Ricordate il caso von Bulow, da cui è stato tratto anche un film con Jeremy Irons e Glenn Close? Bene, era proprio Alexandra l'amante per cui Claus Von Bulow (morto l'anno scorso a 92 anni) fu accusato di aver tentato di avvelenare la moglie, una ricca ereditiera.

Come in tutte le serie che vanno avanti a lungo (Dark Shadows, in onda sulla ABC, terminerà nel 1971 con un totale di 1225 episodi: avete letto bene!) alcuni attori, oltre a svolgere più ruoli nella parti ambientate in epoche diverse della trama, vengono sostituiti, spesso senza spiegazioni. Ad esempio Matthew Morgan, il folle bruto che inspiegabilmente è l'uomo di fiducia della raffinata Liz Stoddard Collins, viene interpretato da George Mitchell in soli 3 episodi, per essere poi cambiato con il più efficace Thayer David (che tornerà anche in altri ruoli, dopo la morte di Morgan). Burke Devlin dopo il licenziamento di Ryan verrà affidato ad Anthony George. Prima dell'arrivo di David Ford, Sam Evans per sette episodi ha avuto il volto di Mark Allen. Poi c'è il caso del viscido Willy Loomis, compagno di malefatte del ricattatore di Liz Stoddard, Jason McGuire, che per cinque puntate è stato il perfetto teddy boy di James Hall, sostituito dal bravissimo James Karsten che diventerà il servo del vampiro Barnabas Collins.

MAGGIE EVANS E BARNABAS COLLINS

Ecco, non abbiamo ancora introdotto l'elemento più importante, il soprannaturale. All'inizio si parla molto e si vede poco, si racconta delle leggende del posto, delle due donne precipitate dal Picco delle Vedove e della terza che le seguirà, e naturalmente di presenze spettrali. Poi fa la sua apparizione nella Vecchia Casa (la dimora originaria in rovina della famiglia Collins, dove si stabilirà Barnabas) il benevolo fantasma di Josette Collins col suo profumo di gelsomini, che aiuterà più volte il piccolo David, che ha un rapporto privilegiato con l'aldilà, soprattutto quando la madre Laura, separata dal padre Roger e  un tempo ricoverata in manicomio torna stranamente cambiata, decisa a reclamarne la custodia. Con lei si svolge una delle sottotrame più suggestive in assoluto della serie. Ma colui che la renderà immortale è appunto l'Immortale per definizione, il vampiro Barnabas Collins, interpretato con perfetto aplomb e minaccioso fascino britannico dall'attore canadese Jonathan Frid, che - liberato da quell'incauto ingordo di Willy Loomis a caccia di gioielli nella cripta di famiglia - si spaccia per un cugino a tutti sconosciuto venuto dall'Inghilterra. Tutti notano che è praticamente identico al ritratto appeso a Collinwood di quello che lui dice essere un suo antenato, ma ne giustificano la stranezza e il modo forbito di parlare come eccentricità europee. Il personaggio (e l'attore) che diventerà la star di Dark Shadows era stato inizialmente previsto per poche puntate, per ridare un po' di linfa allo show in calo di ascolti. Nessuno avrebbe immaginato che il suo ingresso lo avrebbe reso un personaggio di culto con cui quasi tutti oggi identificano la serie, e avrebbe aperto le porte a ogni genere di creatura soprannaturale, streghe, mostri di Frankenstein e lupi mannari inclusi. Se non avete la pazienza di vedere Dark Shadows dal principio (la trovate qua su youtube) sappiate che Barnabas fa il suo trionfale arrivo solo nella puntata numero 211.

LA FOLLA IN DELIRIO PER JONATHAN FRID
Non abbiamo mai invidiato tanto qualcuno, come quei ragazzini americani che dal 1966 al 1971 si precipitavano a casa subito dopo la scuola per piazzarsi davanti al tubo catodico e assistere a un nuovo episodio di Dark Shadows. Noi piccoli amanti del brivido negli anni Sessanta abbiamo avuto Belfagor e nel 1971 Il segno del comando, ma erano solo 11 puntate in tutto e a dir la verità assai addomesticate rispetto alla paura che alcuni episodi di Dark Shadows riescono ancora a sprigionare. Lo stesso effetto ce lo avrebbero fatto qualche anno dopo la Trilogia del terrore con Karen Black, con il mitico episodio del guerriero Zuni, guarda caso anche quello dovuto a Dan Curtis, e il film Ballata macabra, sempre firmato da lui. Da Dark Shadows nacquero due film per il cinema, La casa dei vampiri e La casa delle ombre maledette, entrambi diretti da Curtis, poi libri, fumetti, convention e un culto ancora vivo dopo 50 anni, perché quello che vedi da bambino ti segna per tutta la vita. Non c'è da stupirsi se uno di quei ragazzini era Tim Burton, che nel 1966 aveva 8 anni e nel 2012 ha voluto rendergli omaggio con la sua (purtroppo deludente) versione, dove se non altro ci sono i cammei di alcuni dei vecchi interpreti, tra cui Jonathan Frid, scomparso proprio nell'anno dell'uscita del film, a 87 anni.

BARNABAS COLLINS E IL SUO RITRATTO
Scoprire ora Dark Shadows, vi assicuriamo, fa tornare bambini, spaventati dal buio e dai mostri che si aggirano intorno a noi, nonostante gli adulti ne neghino l'esistenza. Non sarà lo stesso piacere che avremmo provato allora, ma vedendolo da grandi comprendiamo che le belle storie di paura sono sempre state le migliori, lo sono ancora e sempre lo saranno. Soprattutto quando alla fine, sulla spettrale colonna sonora, lo speaker ci ricorda che si tratta di “A Dan Curtis Production”.

ALCUNI DEI PROTAGONISTI DI DARK SHADOWS


Una piccola postilla è obbligatoria su alcuni degli attori di cui non abbiamo parlato sopra e a cui siamo certi vi affezionerete come a persone di famiglia. Ovviamente ci limitiamo a una piccola parte di tutti quelli che hanno partecipato anche perché, per ora, siamo ancora molto indietro con la visione. L'interprete di Maggie Evans - e di altri 4 personaggi - si chiama KATHRYN LEIGH SCOTT e qualcuno forse la ricorderà anche nel ruolo di Nuria in Star Trek – The Next Generation. Oggi ha 77 anni, possiede una casa editrice, la Pomegranate Press, e ha scritto numerosi libri sulla televisione, tra cui più di uno su Dark Shadows, oltre a romanzi ed audiolibri ispirati alla serie (e non solo). Anche lei ha avuto un cammeo nel film di Tim Burton

JOEL CROTHERS E KATHRYN LEIGH SCOTT

Quello che nella serie è stato prima il fidanzato di Carolyn Stoddard e poi di Maggie, Joe Haskell, era interpretato da un bel ragazzo di nome Joel Crothers, un attore che non ha avuto altrettanta fortuna ed è morto di Aids a soli 44 anni. Sul set tutti sapevano che era gay anche se pubblicamente non aveva mai fatto coming out, tanto che aveva in programma il matrimonio con un'attrice poco prima di morire. 

NANCY BARRETT E JOEL CROTHERS
Era gay anche lo straordinario LOUIS EDMONDS, che ha rivelato la sua omosessualità solo nella sua biografia, Big Lou, quando aveva superato i 70 anni. Oltre a incarnare l'antipatico e irascibile Roger Collins, ha ricoperto ben 7 personaggi nella serie, apparendo sia nel primo che nell'ultimo episodio. Premiato attore teatrale, nella vita Edmonds era l'esatto contrario di Roger. Spiritoso e burlone, era solito, prima di girare, fare battute che costringevano a molti sforzi Nancy Barrett e Alexandra Moltke per non scoppiare a ridere. Edmonds è morto nel 2001 a 77 anni.

LOUIS EDMONDS
Di NANCY BARRETT (Carolyn Stoddard e altri sei personaggi) come di ALEXANDRA MOLTKE (Vicky Winters) vi abbiamo in parte già parlato. La prima oggi ha 76 anni e ha lasciato la recitazione nel 1986, con qualche sporadico ritorno. È stata nella serie dall'inizio alla fine, apparendo in 405 episodi. Alexandra Moltke, nata in Svezia da genitori danesi, ha smesso anch'essa di recitare dopo Dark Shadows e oggi, a 75 anni (73 secondo altre fonti) ha all'attivo come regista alcuni interessanti documentari storici. 

IL CAST
Il secondo e più duraturo Willy Looman era interpretato da JOHN KARLEN, che aveva 26 anni all'epoca e che purtroppo è morto proprio il 22 gennaio 2020, all'età di 86 anni, dopo aver continuato una ricca carriera da caratterista in molte serie tv. JAMES HALL è ancora vivo, ha partecipato a qualche convention, è autore di un libro e attribuisce all'aver perso il ruolo per cui era in lizza - il cowboy di Un uomo da marciapiede, andato alla fine a Jon Voight perché più alto e in maggior contrasto col personaggio di Dustin Hoffman - il fatto di non essere diventato una star e avere avuto una vita felice.

DAVID HENESY è (o meglio era) lo straordinario ragazzino che interpreta David Collins, inizialmente odioso poi col passare del tempo sempre più maturo e simpatico. Essendo il più giovane di tutti oggi ha “solo” 64 anni e ne aveva 11 all'inizio della sua avventura. Dopo la serie ha lasciato la recitazione (peccato!) e attualmente vive con la moglie a Panama dopo aver messo su una catena di ristoranti di lusso.

DAVID HENESY
Abbiamo citato Laura Collins, la Fenice, interpreta da DIANA MILLAY, dagli splendidi e ipnotici occhi. Nel suo curriculum prima di Dark Shadows c'è il lavoro di modella e molte apparizioni televisive in serie come Operazione U.N.C.L.E, Maverick, Bonanza, Perry Mason e moltissime altre. Diana ha lasciato la recitazione nel 1971, a soli 36 anni. Ha scritto diversi libri tra cui un'autobiografia intitolata, non a caso, "I'd Rather Eat Than Act", Preferisco mangiare che recitare. Del resto è apparsa in oltre 100 programmi televisivi, dal vivo e registrati, e La casa dalle ombre maledette è stata il suo canto del cigno. Oggi ha 85 anni.

DIANA MILLAY
Dulcis in fundo – ma l'elenco sarebbe ancora lungo - vogliamo terminare col pilastro della serie, la matriarca Liz Stoddard Collins, interpretata da JOAN BENNETT. L'attrice hollywoodiana, che gli appassionati di horror ricordano anche come la Madame Blanc di Suspiria di Dario Argento, è morta nel 1990 all'età di 80 anni. Aveva iniziato la sua carriera all'epoca del muto ed era diventata un nome di punta dello star system hollywoodiano negli anni '30 e '40. Nel 1933 era stata Amy in Piccole donne di George Cukor, nel 1945 fu protagonista per Fritz Lang dello splendido noir Strada scarlatta, poi recitò in Non siamo angeli di Michael Curtiz con Humphrey Bogart e in tanti altri celebri film. Nella sua carriera questa bellissima attrice non ha mai vinto niente, se non l'affetto di un pubblico che ancora ricorda la sua Liz piena di segreti, pronta a giurare eterno odio ma capace sempre di cavarsi dalle peggiori situazioni con grinta e decisione. Senza di lei, Dark Shadows non sarebbe stato quello che è diventato per milioni di spettatori, che alla sua incomparabile classe ed eleganza (che dimostra perfino quando scivola sui lunghi dialoghi della serie) rendono ancora omaggio.

JOAN BENNETT
P.S. Oltre al film di Tim Burton c'è stato un tentativo di rilanciare la serie nel 1991, con Ben Cross nel ruolo di Barnabas Collins, Joseph Gordon-Levitt, all'epoca bambino, in quello di David Collins e con la partecipazione di Barbara Steele nella parte della dottoressa che cerca di guarire il vampiro. Anche se questo reboot - che in 12 episodi condensa diverse storie apparse nella serie originale - era stato accolto benissimo, ha avuto vita breve: la messa in onda è sfortunatamente coincisa con la guerra del Golfo e la trasmissione delle puntate è stata spesso interrotta e spostata, perdendo pubblico e costringendo la rete (NBC) alla cancellazione. 

DAVIS SELBY (IL LUPO MANNARO QUENTIN COLLINS), KATHRYN LEIGH SCOTT, JOHNNY DEPP, JONATHAN FRID E TIM BURTON

Per concludere, Dark Shadows, come un altro, precedente capolavoro della tv americana, Ai confini della realtà di Rod Serling, è venuta prima di tutte le altre serie che dagli anni Novanta in poi hanno invaso le nostre case con storie soprannaturali piene di mostri, mutanti e vampiri, ambientate in tranquilli posti di provincia che nascondono mondi arcaici e potenze ultraterrene. Perfino David Lynch deve molto alla sua commistione tra soap opera e horror. Inoltre, anche se è ovviamente un caso, è ambientata nel Maine come le storie di Stephen King (e quando viene citata Bangor impossibile non pensare a lui). Dobbiamo questa serie unica, iniziata in bianco e nero e terminata a colori, alla creatività di un uomo che rispondeva al nome di Dan Curtis, scomparso nel 2006, con cui noi amanti dell'horror e del fantastico abbiamo un grosso debito di riconoscenza.





venerdì 9 febbraio 2018

IL CIMITERO DELLA CRITICA

Riflessioni su una professione moribonda (I'm back)




Chi mi conosce sa che come critico, pur essendo severa, sono “buona”. Conosco la fatica che sta dietro anche al più miserabile dei film, non sarei mai capace di girarne uno e dunque cerco sempre di giudicare con indulgenza (il che mi procura le accuse di buonismo su cui tornerò alla fine). Certo, mi rendo anche conto che un film non costa quanto un libro e che spesso si buttano milioni solo per compiacere l'ego o l'idiozia di qualcuno. Quello che mi dà veramente fastidio è la presunzione e la mancanza di consapevolezza dei propri limiti, che, come accade a molti ignoranti, vanno spesso a braccetto. E odio chi, spacciandosi per critico, sovrappone se stesso e le proprie verità assolute a film che non riesce a vedere, perché accecato dalla propria mania di protagonismo. Faccio questo lavoro da una vita, più o meno stabilmente da oltre 35 anni (sigh, quest'anno sono 60, come corre il tempo!) e – di qualcosa posso vantarmi anch’io - sempre con onestà e senso di responsabilità verso chi mi legge. Cerco sempre di essere chiara, di fornire informazioni utili, di dare allo spettatore uno strumento, di condividere la mia passione o i motivi del mio giudizio negativo. Anche per questo non mi piacciono le stroncature feroci, espressioni rozze e insindacabili delle idiosincrasie di chi ha un computer sotto mano, un posto dove pubblicare i suoi deliri e non conosce l'arte dell'ironia, che permette di parlare di un film in maniera molto più tagliente rispetto a chi usa la scrittura come un'arma e si  sente per questo superiore a chiunque stia dall'altra parte. 

Purtroppo mi rendo conto che la mia professione, con l'avvento di internet, è fortemente decaduta. Intanto perché, con la democratizzazione verso il basso tipica del web, strumento a disposizione di chiunque, ha aperto la porta della scrittura anche a chi ha scarse conoscenze della lingua italiana e a un infinito esercito di pigri che hanno visto solo film dell'era in cui hanno iniziato ad andare al cinema e non si curano di recuperare gli altri o di verificare le cose che scrivono. Viviamo nell'era dell'ignoranza che si spaccia per verità assoluta, purtroppo. Il socratico “so di non sapere” oggi non ha più senso, come non lo ha studiare, informarsi, migliorarsi.

Non per fare quella che “ai miei tempi”, ma purtroppo è vero: quando si iniziava a scrivere sul cartaceo (ma già nei primi anni Novanta si scriveva anche sul web, non eravamo così preistorici!) si faceva una bella palestra e una lunga gavetta: le riviste di cinema più prestigiose (Segnocinema, Cineforum, Film critica, Cinecritica, Cinema Nuovo e pochissime altre) ti accettavano solo se dimostravi di sapere di cosa stavi parlando e se lo facevi bene (poi vabbé, c’era sempre quello che copiava, ma la mamma dei furbetti è sempre incinta). Prima di arrivarci, ricordo di aver scritto una lettera, ventenne, all'allora critico de La Nazione Sergio Frosali, inviandogli dei miei pezzi di prova. Fu gentilissimo, mi rispose con osservazioni molto pertinenti e consigli, e mi disse che per scrivere di cinema occorreva anche conoscere il teatro, la musica, la letteratura e tutto quel che ci circonda. Fortunatamente, essendo da sempre vorace lettrice e appassionata di ogni forma di arte, non ho avuto problemi a fare mia quella lezione (molti giovani “critici” oggi gli avrebbero riso in faccia, figurarsi chiedergli consigli!), ma il punto è proprio questo: puoi anche non aver letto tutti i libri da cui sono tratti i film di cui parli, puoi non comprendere tutti i riferimenti, ma niente ti impedisce di informarti, studiare, approfondire, se non la fretta assurda con cui oggi si scrive sul web e un'imperdonabile superficialità.

Quando andavamo alle proiezioni stampa, per fare un semplice esempio, eravamo poche decine: i grandi vecchi dei quotidiani e noi giovani, che abbiamo sdoganato tutto il cinema di genere che a loro aveva sempre fatto schifo (con l’eccezione dell'indimenticabile Callisto Cosulich e in parte di Tullio Kezich), ma nonostante questa contrapposizione siamo sempre stati educati, col desiderio di fare meglio e saperne di più, di superare i (cattivi maestri). Poi è arrivato il web e le porte (dell’inferno) si sono spalancate a tutti: alle proiezioni stampa ora ci sono centinaia di persone, molte capitate lì per caso, altre con un blog letto da 10 persone e in compenso belle presuntuose, che pontificano e sparano cazzate ad alta voce, non conoscono e non amano il cinema ma si sentono in diritto di parlarne, perché tanto che ce vo’? Vedi su questo la profetica e immortale sfuriata di Nanni Moretti in SOGNI D'ORO


Già, il web, su cui la penso esattamente come il compianto Umberto Eco. Così come non basta fare delle domande per saper fare delle interviste e conoscere le lingue per saper tradurre, non è sufficiente avere un blog e scrivere “è bello, è brutto”, per definire recensioni i propri deliri. Scrivendo da anni ormai per una delle maggiori testate di cinema e spettacolo online, sempre più spesso ho a che fare con questa fretta, che richiede la notizia calda e trascura l'approfondimento, ma ho almeno la fortuna di poter scrivere di quello che mi interessa. Qua, però, veniamo al secondo punto dolente della mia professione, che mi ha spinto a scrivere questo lungo post: l'invadenza crescente del marketing nel lavoro del critico. Mi riaggancio a quanto dicevo all'inizio: se si vuole evitare un giudizio negativo su film particolarmente brutti o mal riusciti, si potrebbe semplicemente evitare di parlarne. Ma niente vieta una critica negativa, se motivata. 

Però succede - e mi rivolgo agli ingenui là fuori, che pensano che se uno è pagato per fare un lavoro sia anche libero di farlo come gli pare - che i film che a uno fanno schifo li recensisce qualcun altro e che a volte venga chiesto da esterni di attenuare certi giudizi o di ritardare la pubblicazione di recensione negative, e siccome non scrivi per “il mio blog dove dico quel che cacchio mi pare tanto alle proiezioni mi invitano lo stesso, non mi pagano e sono libero di dire che un film è una merda e di offenderne l’autore”, ma vivi del tuo lavoro per quanto precario, non puoi certo permetterti – ammesso che lo faresti – di sparare giudizi tranchant dall’alto della tua presunta superiorità. Dovrebbe essere ovvio che non sei “libero” come vorresti. Ma puoi comunque scriverne male, e lo fai, motivando. L’eccezione sono i festival, dove dei film puoi dire quello che vuoi, ma io non ci posso andare, per cui, a parte il festival di Roma, capitolo limitato ai film che escono in sala e che non sono già recensiti da chi invece ci va.

Ora, un utente di Twitter, unico social che sopporto, mi scrive: “pensa che su un forum (ne esistono ancora? Io li frequentavo già negli anni Novanta e mi sembrano ampiamente superati) uno ha scritto che alla Catelli piacciono tutti i film”. E lì devi rispondere, visto che sei chiamata in causa. Ancora una volta si tratta di ignoranza, nel senso di ignorare una serie di cose: da qualche anno (e non per mia scelta) recensisco quando va bene due film al mese. Potendo sceglierli, vedo quelli che mi interessano per argomento, autore o altro, e che sono poco ambiti. E’ nel cinema indipendente che si trovano ancora sorprese non certo in quello mainstream. In genere i film che detesto, per i motivi di cui sopra (festival ecc) sono già recensiti e non ha senso scriverne ancora. Ciò detto, non mi piacciono tutti i film e ho una lunga serie di artisti e opere che detesto e che non ho potuto affrontare o che ho scelto di ignorare per manifesta incompatibilità

Volete i nomi? Presto detto: dei film degli Oscar l’anno scorso non me ne è piaciuto nemmeno uno, a partire dall’insopportabile Lagnaland, per proseguire con l’orribile Manchester by the Sea, l’insignificante Moonlight ecc. Chiamami col tuo nome non mi è piaciuto affatto, ho detestato Arrival, non sopporto lo stile di Christopher Nolan e di Paolo Sorrentino e di tutti quelli di cui si dice che “però sa girare”, non sono una fan di Clint Eastwood di cui mi sono piaciuti 3 o 4 film in tutto, da qualche anno non reggo Woody Allen (sempre inteso come cineasta), mi sono disamorata di Spielberg che era uno dei miei registi preferiti, Wes Anderson mi dà l'orticaria, detesto fin dal primo film la saga di Star Wars e trovo inutile - a dir poco - il 90 per cento del cinema italiano (e lì per forza devi scegliere il meno peggio). Vogliamo parlare di “capolavori” come Lo chiamavano Jeeg Robot o Veloce come il vento? Ma anche no, grazie! L’unico film italiano di cui ho parlato bene perché meritava è La stoffa dei sogni, che ovviamente non ha visto quasi nessuno. 

Per mia sfortuna, poi, amo e conosco il cinema horror, per cui sono condannata a parlarne e lì sì che son dolori, visto che quasi tutto quello che arriva sui nostri schermi fa schifo e quelli belli, che esistono, te li vedi online ed escono direttamente in home video. E pure lì ci sono richieste di attenuare i giudizi o di non parlarne affatto. Ho adorato Get Out senza riserve e mi divertono i low budget come la serie di Purge. Metà dei film che vedo non mi piacciono o mi lasciano indifferente e ora come ora preferisco di gran lunga le serie tv, ma, siccome la gente non sa leggere tra le righe, ecco che vieni accusato dell’esatto contrario. Se è per questo, non sono facile neanche a usare usare la parola capolavoro, visto che ho visto quelli veri, dal muto in poi. Quindi, sappiatelo, ormai la critica non ha più ragione di esistere. Io detesto i boia e le esecuzioni sommarie, per cui sono felice che il mio lavoro mi permetta anche di poter scrivere approfondimenti sul cinema, programmi televisivi, tradurre interviste e backstage e fare tante cose che per fortuna, per esperienza, cultura ed età sono in grado di fare. Ma se volete stroncature gratuite siete pregati di rivolgervi altrove, visto che l’offerta certo non manca.