IO E GLI ANDERSON
(intesi come Paul Thomas e Wes)
Credo
di essermi innamorata del cinema di Paul Thomas Anderson dal primo
film che ho visto, che se non ricordo male era Boogie Nights. Anche
se l'argomento era il mondo del porno negli anni Settanta, mi fu
subito chiaro di avere di fronte un narratore prodigioso, capace di
gestire in modo infallibile set colmi di persone, situazioni, azioni,
dialoghi, scenografie, oggetti di scena, costumi e acconciature e
farne scaturire dei perfetti spaccati di vita americana. Il fatto che
avesse solo 28 anni e già un film all'attivo (il bellissimo Sydney,
recuperato in seguito) me lo incise a lettere di fuoco nel cuore.
Poi
arrivò Magnolia, splendido come il fiore della pianta che gli dà il
titolo, una corolla che si apriva per dare spazio a personaggi
tormentati e lacerati, cattivi ed egocentrici, disperati e soli,
innamorati e lascivi, rancorosi e moribondi, un film sulla vita, le coincidenze e il caso che la determinano, con rane che piovevano dal cielo in
un'apoteosi biblica per sempre inscindibile dalle musiche di Aimee
Mann. Soltanto i primi film dei fratelli Coen mi avevano coinvolto tanto,
trasmesso tanta emozione e adrenalina e un'idea di cinema larger than
life su schermi già troppo ristretti. Poi ci furono tutti gli
altri, lo splendido, romantico e pazzo Ubriaco d'amore, Il petroliere - forse l'unico su cui ho delle riserve, non a caso il più apprezzato
dall'accademia - e il maestoso The Master, di cui ho scritto proprio in
questo blog e che resta per me al vertice della sua filmografia, per giungere a un altro, diverso capolavoro che è Vizio di forma e di cui ho
scritto qua (anche se su ogni suo film in realtà potrei/dovrei e a volte anche vorrei scrivere un
libro).
Poi
c'è quello che per me è l'altro Anderson, Wes (in realtà ci sarebbe anche Paul W. S.
Anderson, che però è inglese, è sposato con Milla Jovovich e ha
fatto i film di Resident Evil, ma qua non ci interessa).
Dicevamo, appunto Wes, texano, di un anno maggiore di Paul Thomas,
faccia da irrimediabile nerd, di cui nel 2001, spinta dalle lodi dei
colleghi e dal cast stellare in cui c'era anche quel genio di Gene
Hackman, vidi I Tenenbaum, che mi lasciò
totalmente fredda. Intendiamoci, non che fosse brutto, ma era come se
uno si fosse sforzato tanto - un po' come l'oggi giustamente obliato M. N.
Shyamalan - dando l'impressione di un miracoloso parto plurigemellare, per poi sfornare un topolino.
Spinta comunque dalla
curiosità e dall'amore per Bill Murray recuperai anche Rushmore e le
cose andarono anche peggio: lo trovai assolutamente insopportabile,
forse anche per la presenza del suo amico e sceneggiatore Owen
Wilson, l'uomo che non riesce a chiudere la bocca e la cui fisionomia
mi irrita da sempre, a pelle (ironia della sorte:
solo l'altro Anderson, Paul Thomas, è riuscito a rendermelo
tollerabile in Vizio di forma). Comunque niente da fare, l'impressione
di uno che facesse centrini all'uncinetto e venisse scambiato per
Benvenuto Cellini mi restava. Andando avanti col tempo, si è
aggiunta una sgradevole sensazione – e cito Moonlight Kingdom, che
tutto sommato è il suo film che ho preferito – di tristezza, ma
non di quella dolce e malinconica, proprio di quella brutta e un po' squallida.
Insomma, tanto spreco di scenografie, costumi, fotografia, effetti
ottici e quant'altro alla fine veniva messo a servizio di case di
bambola costruite coi fiammiferi e i contenuti, se pure c'erano,
erano deprimenti. E poi è arrivato lui, Grand Budapest Hotel, un
divertissement anche parecchio presuntuoso. Se c'è qualcosa che
conosco bene, per vecchia passione a lungo coltivata, sono la storia e la letteratura della Mitteleuropa, Stefan Zweig incluso. Dire di essersi ispirati ai
suoi lavori quando già citare Lemony Snicket e Guy Maddin sarebbe
stato esagerato, non mi ha di certo ben disposto. Il problema, forse, è
che a me piace la passione al cinema, e io nel cinemino bellino e
costruito a tavolino di Wes Anderson non ce ne vedo. O forse è la
passione di chi gioca a scacchi o costruisce modellini, un piacere
cerebrale che non mi coinvolge e di sicuro non mi appaga.
A
questo punto, probabilmente, entrano in gioco altri fattori e una
diversa sensibilità perché vedo tanto amore per un film che non
mi ha strappato neanche un sorriso e piuttosto mi ha annoiato,
nonostante gli attori fantastici e le musiche bellissime, dandomi la sensazione di sfogliare un album di cartoline
colorate a mano o di guardare all'infinito uno di quei diorami natalizi
in movimento che compaiono nelle vetrine di Vertecchi ogni dicembre e che
puoi ammirare per massimo cinque minuti.
Questo non significa che io odi Wes Anderson - che anzi credo sia intelligente e simpatico - o i suoi film:
semplicemente, che esistano o non esistano, il mio rapporto con la vita e con il cinema non ne viene minimamente scalfito, influenzato, arricchito. E
la pioggia di candidature che l'Academy – e non solo – gli ha
riversato addosso continuo a non capirla, soprattutto quella per una
sceneggiatura in cui non ho trovato niente di originale.
Qua, però, è
proprio il mio amato Paul Thomas a fregarmi: quando è venuto a Roma lo scorso gennaio, a domanda su chi avrebbe dovuto vincere l'Oscar
per la sceneggiatura originale ha risposto senza esitare: Wes
Anderson! Purtroppo è stata l'ultima risposta e non ho avuto modo di
chiedergli spiegazioni, ma mi sorge un dubbio: non è che magari sono
secondi cugini?
Se così fosse, magari da piccoli, diciamo all'età di 9 anni, quando entrambi - dice la storia - già giravano i loro primi film, i genitori si
incontravano per le festività (mi piace immaginare gli Anderson texani in visita dagli eccentrici Anderson losangelini per Natale) e il più grande e saputello Wes
incantava il più ingenuo Paul Thomas costruendogli fortini di
cartone e dando vita a epiche battaglie,
convincendolo una volta per tutte di essere un grande narratore.
Lo
so: dalla loro biografia non risultano parentele di sorta, ma una spiegazione
razionale deve pur esistere!