BOARDWALK
EMPIRE
Fenomenologia
di una serie di culto
Mentre
vi ricordo che è cosa buona e giusta leggere anche i post che
precedono questo, se ancora non l'avete fatto, torno a queste pagine
che mi risparmiano una lunga e costosa psicoterapia per parlare di
una serie che mi fa impazzire (tranquilli: ce n'è per tutti i gusti,
ne seguo una decina in contemporanea con l'America o l'Inghilterra,
compresi un bel po' di guilty pleasures). E non è nemmeno di genere horror o fantastico,
anche se di scene di sangue, budella e torture ce ne sono
in abbondanza.
Boardwalk
Empire
di Terence Winter è un meraviglioso ritratto, tra invenzione e
realtà, dell'America degli anni Venti, quella bella e terribile del
Volstead Act (1919-1933), ovvero del Proibizionismo. L'era di Francis e Zelda
Scott Fitzgerald, delle maschiette, degli speakeasies e naturalmente
dei padroni delle città, i gangster italiani, ebrei e irlandesi: Al
Capone, Johnny Torrio, Lucky Luciano, Arnold Rothstein, Meyer Lansky,
Joe Masseria, Dean O'Banion. L'epoca di Eddie Cantor, dei
fantasmagorici musical di Busby Berkeley, di James Cagney e Paul
Muni, dei pugni di Jack Dempsey, delle ragazze delle Ziegfeld
Follies, dei party scatenati, dei primi porno, degli scandali
hollywoodiani, del nascente star-system, delle suffragette e della
presidenza di Thomas Woodrow Wilson, Warren G. Harding e Calvin
Coolidge. Un periodo storico che ha dato tanto al cinema ma che, in
maniera così completa come in Boardwalk
Empire,
non avevo mai visto rappresentata.
Questa
serie memorabile è riuscita a intrecciare alla perfezione il
romantico glamour delle ambientazioni e dei costumi con la spietata
realtà di un mondo senza regole e morale da cui – dopo i massacri
della prima guerra mondiale e prima della Grande Depressione – si è
sviluppata l'era capitalistica moderna. Dagli accordi tra i
gangster e i politici corrotti per trasportare gli alcolici di
contrabbando nacquero strade e opere pubbliche e fiorì un'industria
sotterranea che arricchì migliaia di persone a discapito di milioni,
ma che fece prosperare le fortune di una città come Atlantic City,
di pari passo con l'aumentare dell'illegalità.
Al
centro di Boardwalk
Empire
c'è un personaggio reale, romanzato come gli altri per
esigenze di fiction: Nucky Thompson, il tesoriere della città,
il cui vero nome era Nucky Johnson. Che si sappia, il vero Enoch non uccise
direttamente nessuno, ma fu comunque un criminale, figura di
grande spicco e potente influenza politica nel Partito Repubblicano, che si
arricchì grazie al commercio di alcolici e alla gestione dei bordelli facendo della sua città l'unico posto
in America in cui ci si divertiva e si beveva alla luce del sole in
spregio alla legge.
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Enoch "Nucky" Johnson |
Arrivata
alla terza stagione, la serie prodotta da Martin Scorsese e Mark
Wahlberg non ha sbagliato un colpo, diventando sempre più ricca,
complessa e corale. Nei suoi 2 anni di vita e nelle prime 5,
splendide puntate della terza serie, ha infranto molte barriere e toccato, mai in modo superficiale, una marea di temi: fatti fuori due dei protagonisti, ne ha – purtroppo – freddato un
altro nel primo episodio della terza stagione, ha parlato di
incesto, sadismo, violenza, inganno, terrorismo irlandese,
emancipazione femminile, camarille politiche e corruzione su vasta
scala, e ha mostrato (siamo alla HBO, casa anche del Trono di
spade) una grande quantità di atti sessuali, nudi frontali femminili
e anche - vivaddio - qualche sedere maschile.
Cardine
di ogni serie sono gli interpreti che gli danno vita, e qua Boardwalk
Empire
non ha rivali. A partire da Steve
Buscemi,
che ha trovato finalmente il ruolo da protagonista che gli mancava,
magnetico e ambiguo nel ruolo di Thompson, meritano
tutti di essere citati: a parte Michael
Pitt
che ci ha lasciato alla fine della seconda stagione, Gretchen
Mol
nei panni di Gillian è una madre confusa e indecifrabile, Kelly
McDonald,
in quelli di Margaret, apparentemente indifesa emigrata irlandese, sposa
Thompson ma non riesce a possederlo, e rimane scomodamente sospesa
tra la fede cattolica e la consapevolezza di andare a letto col
diavolo;
lo stratosferico Michael
Shannon si trasforma da ferreo agente anti proibizionismo a bigamo e bugiardo
venditore di ferri da stiro: tormentato, posseduto, minaccioso e
patetico, è un gigantesco bambino tremante che infrange tutte le
leggi, umane e religiose, in cui crede.
Ci sono poi il fantastico
Jack
Huston,
figlio e nipote d'arte, che sacrifica la sua bellezza sfoderando una
performance da brivido con sola mezza faccia e mezza voce nel ruolo
del fedele Richard, il cecchino veterano di guerra sfigurato,
e Shea
Wigham nei panni del fratello meno dotato di Thompson, solido e tenace come un mastino. 




E ancora, i magnifici gangster: Michael
Stuhlbarg
(ma ve lo ricordate nel ruolo del povero "Giobbe" in A
Serious Man
dei Coen?) è un Rothstein pallido, elegante, mellifluo e
imperscrutabile, e sono state per me rivelazioni assolute Paul
Sparks
(Mickey "giggling" Doyle),
Michael
Kenneth Williams
(il suo gangster nero, Chalky White, è in assoluto uno dei
personaggi più belli della serie),
Vincent
Piazza,
uno splendido e odioso Lucky Luciano (il suo colloquio in dialetto
con il Joe Masseria di Ivo Nandi nel quarto episodio è da antologia)
e l'inglese Stephen
Graham,
irriconoscibile e credibilissimo nel ruolo di Al Capone, senza alcuna
pietà coi suoi pari, ma tenerissimo e commovente col figlio sordo.
E' perfetto Stephen
De Rosa
nel suo ritratto di Eddie Cantor e ci piace moltissimo Bobby
Cannavale,
recente innesto nel ruolo del suscettibile mafioso psicotico, kinky e flamboyant Gyp Rosetti. Senza spoiler, basti dire che
il finale del quinto episodio, di cui è protagonista, è cinema
puro, ricco di sangue, violenza e furore.



Quando una serie è in grado di divertire, scioccare e commuovere fino alle lacrime, quando la cura riversata in un prodotto è tanta e tale da essere visibile, episodio dopo episodio, nel più minimo dettaglio di ogni singolo costume e acconciatura, nella colonna sonora, nella regia mai banale e in ogni sorriso, smorfia, rictus sul volto degli attori, ci troviamo di fronte a qualcosa di più del puro entertainment, a un'opera che sa concedersi, e regalarci, anche il lusso di essere lenta, operatic, forte come un whisky non annacquato. Una serie per intenditori, in cui ogni colpo di pistola porta avanti la storia e non la sostituisce.
1 commento:
Dopo aver letto questa recensione credo che iniziero' a vedere anche questa serie. Mi hai convinta!
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