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giovedì 18 ottobre 2012

American Horror Story - Asylum

Another crazy rollercoaster ride

 

Era dall'epoca di The Kingdom, del mio adorato Lars Von Trier, che l'horror televisivo non mi divertiva così tanto. E mai e poi mai - lo giuro con la coscienza pentita di chi si è sorbita incredula due stagioni di Glee, avrei pensato che a darmi questa soddisfazione sarebbe stato Ryan Murphy. Qui siamo sul versante opposto rispetto a The Walking Dead. Non c'è l'orrore puro, serio, implacabile e feroce degli zombi e dell'assedio, ma un gioco molto raffinato sugli stereotipi, i cliché e i classici del genere, che nasce dall'amore che gli autori – Murphy e Brad Falchuk – hanno per la materia. E per fortuna, oltre a conoscerla bene, non ne sono coinvolti al punto da usarla come manifesto, a differenza di quel che Murphy ha fatto di Glee, dove il messaggio ha spesso preso il sopravvento sulla narrazione. E' per questo che possono fare leva sui luoghi comuni del genere – intesi proprio alla lettera: la casa, il manicomio – per creare qualcosa di assolutamente inedito e autentico, una compilation in cui c'è tutto o quasi il cinema horror e non solo. 
 Il titolo, in tal senso, è il primo indizio: American Horror Story, scritto in un bellissimo e iconico carattere Art Deco, è traducibile come "una storia dell'orrore americana", ma fa pensare anche a "una storia dell'orrore americano". La serie denuncia qui le sue ambizioni: raccontare una possibile storia della società americana attraverso la storia del cinema horror. Per far questo prende a pretesto due classici produttori di mostri - la famiglia nella prima stagione e l'istituzione nella seconda - per regalarci una vicenda autonoma e a sé stante costruita come un mostro di Frankenstein, con pezzi di altre creature, storie, immagini e visioni.
La prima puntata della seconda stagione non fa eccezione. Citiamo qualche titolo a caso a cui i riferimenti sono più o meno espliciti: Qualcuno volò sul nido del cuculo, Arancia meccanica, Non aprite quella porta, Occhi senza voltoIl silenzio degli innocenti, Christine, Freaks, Kalifornia, Frankenstein (anche se il mad doctor di James Cronwell sembra più un personaggio di Lionel Atwill),  i vari film sulle abduction extraterrestri, ecc. Nella suggestiva cornice del presente, gli iconici anni Sessanta sono lo sfondo su cui si svolge la seconda stagione: l'assassinio di Kennedy e la Chiesa riformata del Concilio Vaticano II hanno una parte importante nell'humus dei personaggi e della storia.
Ma tutto questo non deve far perdere di vista il fine ultimo di questa serie, che non è uno sfoggio di cultura horror fine a se stesso, ma la creazione di un fantasmagorico tunnel degli orrori, un crossover di mondi e figure ben scolpiti nel nostro immaginario. Giganteggia, su tutti, Jessica Lange. Mai così sinistra e mai così divertente (e Murphy le concede pure di essere sexy, a oltre 60 anni). Sulla trama dell'episodio e sugli oggetti feticistici di questa seconda stagione non vi rivelo niente, lasciando ad altri il compito di fare inutili spoiler. Una nota di merito va all'incipit bollente e cruento e al ritorno dei volti già noti (tra cui – annunciato proprio oggi – ci sarà anche Dylan McDermott). Mi ha fatto sorridere vedere Chloe Sevigny in ginocchio impegnata in un blow-job. E se non non avete pensato anche voi a quello vero fatto dall'attrice a Vincent Gallo in The Brown Bunny, vi siete persi qualcosa. La sua presenza è una liaison magari inconsapevole ma ideale tra questa serie e il lavoro di Lars Von Trier, del cui Manderlay l'attrice era forse il personaggio più riuscito. E' vero che siamo appena partiti e la prudenza è d'obbligo, ma, anche qua, le premesse per un giro a rotta di collo sulle montagne russe dell'orrore ci sono tutte. E ormai di Ryan Murphy, nonostante Glee, ci fidiamo (quasi) ciecamente.

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