ANNIBALE CANNIBALE TERRIBILE
La stagione del mio disamore per Hannibal
Nella vita le delusioni abbondano: deludono i fidanzati, gli amici, i figli, figuriamoci se
non può deludere una serie tv che riempie una minima parte – certo meno importante
- della nostra vita. Confesso di esser
stata presa dalla serialmania da cui mi ritenevo immune e di aver guardato un po'
di tutto, negli anni, spesso anche per futili motivi. Ad esempio ho guardato
due stagioni del (per me) insensato Sleepy Hollow perché ci recitava il mio
amico John Noble, straordinario attore, e ho tirato un sospiro di sollievo
quando ho saputo che se n'è andato e non sarò costretta a veder la terza. A
volte dò una chance anche alle sitcom ma l'unica che mi è rimasta appiccicata negli
anni è The Big Bang Theory a cui si aggiunta la purtroppo sporadica ma fantastica gay-com inglese Vicious.
Per motivi di lavoro e di
interesse cerco poi di vedere almeno le prime puntate di tutte le serie horror e
fantastiche e nell'ordine dopo un po' per vari motivi ho scartato Dexter, The
River, Under the Dome, Penny Dreadful e Lost Girl, mentre resto per ora fedele
a The Walking Dead (ma non vedrò Fear the Walking Dead) e a Grimm. E poi
naturalmente c'è Hannibal, che fino all'anno scorso, come molti sanno, era
nella mia top ten e anche piuttosto in alto.
Amo e stimo da sempre Bryan Fuller
(adoravo Pushing Daisies!) ed ero quindi piuttosto curiosa di vedere quale
sarebbe stato il suo approccio alla saga di Hannibal Lecter, diventata sempre
più mediocre libro dopo libro e film dopo film, con l'eccezione de Il silenzio
degli innocenti e Manhunter e dei primi due romanzi. Non sono rimasta
delusa. Le prime due stagioni, scandite da pranzi e cene gourmet a base di
carne umana, hanno portato Hannibal a un livello superiore, quello di un vero e
proprio demone, anzi, del Diavolo in persona, come lo stesso autore e Mads
Mikkelsen hanno da subito dichiarato.

Era dunque bello vedere la tensione e l'evolversi del rapporto tra
lui e il Will Graham di Hugh Dancy, l'uomo capace di immedesimarsi nella mente
dei serial killer, e il fatto che quest'ultimo avesse problemi mentali in partenza e
fosse affidato proprio alle arti manipolatorie del dottor Lecter dava il via a
suggestioni e intrichi psicologici raramente presenti nei superficiali serial
americani. Era, insomma, una serie intellettuale, non facile, in cui la morte
veniva messa in scena come un'opera d'arte, congelata nella sua atroce bellezza
e dove le metafore visive (anche se assai ripetute, come quella del cervo)
abbondavano, arricchendola di visionarietà. Hannibal era un artista del male,
chirurgico nel dispensare la sua beffarda giustizia terrena e determinato a
crearsi una famiglia psicotica di suoi pari. Era l'intelligenza del male spinta
all'estremo, capace di giocare con la mente dei suoi interlocutori/vittime come il gatto col topo, sornione e in perenne attesa. E
c'era anche molta ironia, che
alleggeriva i momenti più raggelanti della storia. Più astratto dei romanzi e
dei film, dai quali volutamente si distaccava, Hannibal aveva creato un mondo, in cui, pur richiamando le visioni dell'Inferno dantesco e quelle di Milton e di William
Blake, portava avanti in modo originale una storia coerente.

L'attrazione tra Grahan e
Lecter, fortemente intrisa di omoerotismo, funzionava anche come esasperazione del
tema dello specchio e del mito di Narciso, mentre l'inserimento tra i due di un
attore dalla concretezza e dalla fisicità di Laurence Fishburne nel ruolo di
Jack Crawford faceva da sponda al gioco tra di loro, magnificando le
geometrie dei loro rapporti. C'è da dire che i personaggi femminili, a partire dalla
dottoressa Alana Bloom che è infatutata di Will Graham, va a letto con Hannibal e si scopre poi
lesbica fidanzandosi con la ricchissima Verger (?) per arrivare all'insulsa giornalista di true crime Freddie Lounds, trasformata in donna per esigenze
di... boh, forse per equilibrare i personaggi maschili, sono quelli che ci hanno sempre
convinto meno. Comunque, dopo una serie di episodi in cui Hannibal sembrava
aver preso una SUA strada originale, c'è stata la necessità di tornare ai libri
di cui la produzione di Martha De Laurentiis detiene i diritti. Ecco così che la parte relativa a
Mason Verger, una di quelle potenzialmente più interessanti, dopo un interessante inizio nella seconda, è stata
sbrigativamente (e goffamente) liquidata all'inizio della terza stagione,
così come la (inutile) storia delle origini di Hannibal, con l'inserimento di un
personaggio femminile, l'inutilissima Chiyo, che sembra uscito da Kill Bill o da Sin City, sostituisce la zia che educa Hannibal nei libri e agisce da deus ex
machina in entrambe le storie prima di sparire (o sparare?) per sempre.

L'inizio della terza stagione intreccia a
piacer suo varie trame non tutte sulla stessa linea temporale, ed è non
solo brutalmente
spiazzante, ma perde per strada anche quel minimo (un
minimo!) di plausibilità, necessario anche nelle narrazioni più
fantasiose.
Personaggi insignificanti appaiono e senza il minimo approfondimento
vengono
velocemente spacciati dopo cene che non somigliano per niente alle
raffinate
preparazioni delle prime stagioni, si passa dalla Sicilia a Firenze nel
volgere di un episodio, con tutti
che inseguono tutti, si sfiorano, si perdono, si ritrovano e si lasciano
bigliettini amorosi (sotto forma di cadavere, of course), con
l'irritazione
supplementare, in una serie così ricca e curata, di vedere tradotte in modo ridicolo con Google
traduttore delle scritte in “italiano” e il fastidio dell'incongrua liaison e
complicità tra Hannibal e la sua psicanalista schizzata, Bedelia (che purtroppo sostituisce in
molti episodi della vicenda l’insostituibile Clarice Sterling) interpretata con
un continuo tono sussurrato e monocorde dalla pur brava Gillian Anderson
(no tartuffi bianchi for me, please!). Dopo il pessimo sfruttamento
delle location e degli attori italiani, in una Firenze surrealmente
deserta, con
dialoghi sempre più pretenziosi e vacui che esprimono concetti già detti
e ridetti, immagini al ralenty e dettagli in macro messi lì tanto per
riempire il
lentissimo tempo della narrazione, Hannibal si consegna
spontaneamente a Jack Crawford e nella puntata numero 8 (su 13)
ritorniamo finalmente nel solco della narrazione "regolare", con un balzo avanti nel tempo, per
raccontare la storia di Red Dragon in modo molto simile al libro e al film, ma con un paio di differenze sostanziali che non spoleriamo.

Sono passati tre
anni e Will Graham è accasato con una insignificante sconosciuta e col figlio undicenne
di lei con cui vive nella solita casa circondata da nevi perenni e la sua muta di
cani, ma non sa resistere al richiamo del caso della Fatina dei Denti/Grande
Drago Rosso (ben impersonato dal fin troppo bello Richard Armitage, al quale
però comunque continuiamo a preferire Tom Noonan e Ralph Fiennes). E anche in questa
parte, comunque assai migliore dei primi episodi, ci sono cose così
implausibili che richiedono un livello di sospensione dell’incredulità
prossimo allo stratosferico. Torna anche la sussurrante Bedelia, ancora
inspiegabilmente in libertà, e rientra non si capisce bene bene a che titolo nell’FBI
quell’altra poco affidabile strizzacervelli di Alana Bloom (poi dice uno non si fida della categoria!).

E' come se Fuller,
incoraggiato dai risultati ottenuti con una serie tanto anomala, avesse deciso
di premere il pedale dell'acceleratore convinto che tutti lo seguissero nella
sua corsa contro il muro, e dopo averci affascinato e orripilato con le
sculture cadaveriche di Hannibal e i suoi incredibili tableau mourants,
quando è stato costretto a rientrare nell'alveo di una narrazione più classica, col fiato del network sul collo, si fosse
trovato impreparato, fino a perdere il controllo del materiale. So che – così come ci sono moltissime persone che si sono disamorate della
serie - ce ne sono altrettante se non di più che continuano ad amarla e ad esaltarla, anche tra i
critici. Il problema nel mio caso non è la comprensione dei “messaggi” e delle metafore: è tutto così insistito e ripetuto che neanche lo spettatore più distratto può evitare di
capire, e se così non fosse nella puntata nr. 12 tutto viene esplicitato in
parole). Il problema è la fastidiosa sensazione di assistere alla
confusione mentale di un autore di grande talento che, impegnato su più fronti,
ha lasciato che la perfetta architettura delle prime due stagioni prendesse
derive inutili e sbilenche, mostrando crepe enormi in un edificio altrimenti
perfetto.
Resta ancora una puntata alla
fine (pare definitiva) della serie, perciò potrei tornare sul discorso ma al momento
preferirei dimenticare almeno la prima metà di questa stagione e ricordare solo
le due precedenti.