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mercoledì 31 ottobre 2012

 I "WITCH" YOU A HAPPY HALLOWEEN


Sono in partenza ma ci tenevo ad augurare a tutti i miei lettori, vecchi e nuovi, un felice Halloween! Non so a voi, ma a me dà un po' sui nervi sentir ripetere che  è un'americanata, che noi abbiamo il carnevale, ecc. ecc... beh, io sento molto più vicina questa ricorrenza delle varie feste cristiane. Forse perché è antica, forse perché sono un po' strega, forse perché amo il lato oscuro almeno quanto la parte “nobile” della mia anima. Okay, “trick or treat”, o “dolcetto e scherzetto”, ha avuto un'importazione tardiva, e per i ragazzini è più che altro un'occasione per far casino. Ma il significato vero, profondo di Halloween, è un altro: ricordare, sì, i defunti, ma anche entrare in contatto con le nostre paure, esorcizzarle, osservare timorosi e rispettosi la soglia che separa il mistero profondo della vita da quello della morte.
Halloween è la festa di Pomona, la fertile dea dei frutti e dei semi, di Samhain (la “fine dell'estate”), l'inizio dell'anno nuovo per i Celti, il tempo in cui i morti sono irrequieti e tornano a visitare i vivi. E' impossibile per chi ama il cinema dell'orrore non amarla. Io sarò in viaggio, e per festeggiare mi vedrò gli ultimi episodi di The Walking Dead e American Horror Story, che ho lasciato volutamente per oggi. E voi? Se il tempo vi impedisce di uscire stasera chiudetevi a casa e concedetevi una bella maratona horror, con zucche e candele accese, o comunque vogliate farlo, onorate questo periodo dell'anno con tutto il suo folclore. Se suonano alla porta, guardate prima dallo spioncino. Potrebbero essere dei Testimoni di Geova. Vii auguro un Felice Halloween, che The Great Pumpkin vi assista e che tutte le maledizioni che avete mandato, se meritate, colgano il bersaglio.

domenica 28 ottobre 2012

E QUASI TUTTO IL RESTO

Diario di una serial dipendente

 

 

Okay, lo ammetto: a volte mi sembra di essere David Bowie in L'uomo che cadde sulla terra. In fondo è quello il mio sogno: poter guardare contemporaneamente tutto quello che di interessante succede nel mondo e assimilarne gli input come un flusso continuo di stimoli e informazioni. Nel mio piccolo, dunque, leggo un paio di romanzi e saggi nello stesso periodo e seguo troppe serie, cercando di compensare con il divertimento e la gioia che alcune di loro mi danno, l'assoluta noia – salvo rare eccezioni – del cinema di genere dei nostri anni.
Perché uno si innamora di una serie? Non so gli altri, ma nel mio caso a volte vengo incuriosita dal pilot, o dagli attori, o dall'argomento... altre volte resisto un paio di stagioni prima di mollare, vuoi perché la trama diventa troppo implausibile perfino per un'opera di fantasia (vedi Dexter) o ripetitiva (Californication, Cougar Town) o troppo “a tesi” (Glee). Oppure la serie fa pochi ascolti e viene cancellata, come Pushing Daisies che mi piaceva tanto. Poi ci sono quelle che vedo perché ne sento molto parlare, come A Game Of Thrones, che non ho ancora capito se mi piace o meno, quelle rilassanti e interessanti come The Mentalist, e infine i guilty pleasures (l'ultimo è C'era una volta, che vedo soprattutto per l'amore che porto a Robert Carlyle), che sono quelli che posso anche decidere di lasciare senza rimpianti dall'oggi al domani. Non potrò comunque mai vedere, per incompatibilità cerebrale, nessuna serie su avvocati, medici, ospedali, infermieri e spie.


A volte, però, nascono grandi amori. Ho conosciuto John Noble nel 2003, quando sono andata a Berlino per i junkets internazionali de Il ritorno del re di Peter Jackson, in cui lui era il folle re Denethor. 5 minuti di intervista (per di più in coppia con David Wenham) sono bastati a far scattare tra noi un'istintiva simpatia. Da allora ci siamo scritti moltissime email e siamo entrati in confidenza. All'epoca lui, “vecchio” attore di teatro australiano che non aveva mai spinto oltre le proprie ambizioni, era frastornato dal primo impatto con Hollywood. Dopo la partecipazione a un paio di film non eccelsi nei panni del classico villain e un temporaneo rientro in patria, è fortunatamente arrivata per lui la grande occasione: essere scelto per uno dei ruoli protagonisti della nuova serie di J.J. Abrams, reduce dal successo mondiale di Lost. Solo perché c'era lui, così, ho iniziato a guardare Fringe, che inizialmente mi sembrava una copia un po' più estrema e con meno extraterrestri di X-Files, con cui condivide anche la casa madre, la Fox. Ma sempre di più, con mia stessa sorpresa, sono stata catturata da questa serie così complessa, affascinata dal suo look stiloso, raffinato e innovativo (l'invenzione dei glifi è a dir poco geniale) e dai suoi personaggi, tanto profondi e realistici da sembrare veri. Su tutti, ovviamente, svetta il Walter Bishop di John Noble, originale variazione sul tema del mad-doctor: Walter, che è stato per molti anni chiuso in manicomio, è come un bambino mai cresciuto. Il sesso non gli interessa ma è appassionato di droghe allucinogene, trash food e musica, è eccentrico e smemorato, pieno di idiosincrasie, e sembra a tratti un ex fricchettone invecchiato, convinto che alla scienza sia permesso praticamente tutto.

Quando gli ho detto che concordavo con coloro che dicevano che era stato “scippato” dell'Emmy, John mi ha risposto: “ormai non ci penso proprio più. Sarebbe bello, ma non accadrà mai con una serie di fantascienza”. Il punto, però, è che Fringe è molto di più di uno show televisivo che riprende temi e situazioni della fantascienza classica per reinterpretarli da un punto di vista moderno: in questa quinta, conclusiva stagione, i nostri eroi lottano contro gli spietati Osservatori capaci di leggere nel pensiero, robot in forma umana che hanno conquistato il nostro mondo e lo sfruttano ai propri fini decretandone la condanna a morte. E gli autori ci ricordano, in un momento storico in cui la nostra passività rischia di renderci schiavi consenzienti dello sfruttamento e della tirannia, che resistere è possibile e ribellarsi è necessario. Fringe trascende, con la forza delle migliori metafore, la storia che racconta per diventare un commento sui tempi in cui viviamo, attraverso un mondo che ricorda quello dipinto da John Carpenter in Essi vivono. Non so come i fantastici autori della serie, J.J. Abrams, Roberto Orci, Alex Kurtzman e Akiva Goldsman, risolveranno il finale, ma solo l'Arte riesce a farti entrare con tanta passione in un mondo inventato e a farti affezionare a personaggi di fantasia. A me dà parecchio fastidio l'abuso che si fa oggi del termine capolavoro e della parola amore, ma per Fringe potrei spendere entrambi senza timore di esagerare.

Rientriamo invece nel campo dell'horror e del puro entertainment, anche se di ottimo livello, con Grimm, la serie NBC di David Greenwalt e Jim Kouf, alla sua seconda stagione. Questo è uno di quei casi in cui sono stata contenta di avere continuato a vederla, perché l'inizio, in cui Nick, un giovane detective della polizia di Portland si accorge di avere la capacità di vedere i veri volti mostruosi di alcune creature che si aggirano in incognita nel nostro mondo, mi era parso a dir poco frettoloso. Okay, la solita storia del ragazzo che scopre di avere capacità che gli altri non hanno, e in questo caso apprende di essere discendente dei Grimm, una genealogia di cacciatori di mostri. Bene, sono stata totalmente smentita dagli autori. Col tempo cresce il divertimento, la struttura si complica, c'è una sottotrama molto intrigante che coinvolge il capo della polizia, la fidanzata di Nick e una misteriosa famiglia reale del mondo delle creature, i Wesen, e quest'ultime non sono solo quelle dei classici racconti, ma in parte sono inventate e in parte fanno riferimento al folclore mondiale (come nel bell'episodio di Halloween di quest'anno, La Llorona). Gli attori sono ottimi e adatti al ruolo: David Giuntoli ha la faccia carina e ingenua del bravo ragazzo, capace di nascondere un segreto e affrontare anche i suoi lati più oscuri, Russell Hornsby è Hank, il partner coinvolto suo malgrado nella missione di Nick, l'affascinante Bitsie Tullock è la fidanzata Juliet, vittima di un incantesimo d'amore, il simpaticissimo ed esuberante Silas Weir Mitchell è Monroe, il licantropo che dà una mano al Grimm, e il seducente canadese Sasha Roiz è il francofono capitano Renard con la sua hidden agenda. Col passare degli episodi la serie è diventata anche più splatter e tesa. Insomma, se ancora non l'avete fatto, datele un'occhiata, possibilmente – raccomandazione valida per tutto quello di cui abbiamo parlato finora – in versione originale!

E' invece partita da poco ed è solo al quarto episodio
666 Park Avenue, una serie creata da David Wilcox, produttore e sceneggiatore di Fringe e altri show televisivi, in onda sulla ABC. La storia, in sé non certo originale, riecheggia nell'ambientazione Rosemary's Baby. Jane ed Henry, una bella coppia di giovani provinciali ambiziosi, arrivati nella Grande Mela in cerca di fortuna, trova lavoro e si trasferisce all'interno del Drake, un palazzo di lusso molto simile al Bramford Building del film di Polanski (che a sua volta rimandava al Dakota Building di fronte al quale è stato ucciso John Lennon). Sotto l'ala protettiva di Gavin Doran, il proprietario del complesso, e della moglie Olivia, i due iniziano a fare carriera e a frequentare l'alta società, ma nel palazzo accadono cose terribili e Jane, che tra i suoi compiti ha anche quello di riportare il Drake all'aspetto originale, inizia ad avere delle visioni e a rendersi conto che nel luogo c'è qualcosa di malsano. Al quarto episodio, a parte il piacere di rivedere Vanessa Williams che tanto avevo amato in Ugly Betty, e Terry O'Quinn che per tutti è famoso per Lost ma per me resterà sempre The Stepfather, non è che le emozioni si siano sprecate. Forse il setting è un po' troppo prevedibile, e non c'è dietro tutta l'inventiva e la cultura horror che ha dato vita a American Horror Story (è un confronto impietoso), ma al momento l'impressione è quella di una soap opera gothic e glossy, in cui tutto sommato i personaggi si meritano quello che gli capita. Di brividi di paura per ora neanche l'ombra. Continuerò a vederla, sperando che il diavolo, prima o poi, si manifesti in tutta la sua terrificante potenza.


venerdì 26 ottobre 2012


 

What If...

British Do It Better. Le magnifiche serie inglesi


Cosa succederebbe se qualcuno rapisse una personalità molto popolare, una specie di Lady Di, e come condizione irrinunciabile del riscatto chiedesse al Primo Ministro di fare sesso in diretta tv mondiale con un maiale? E se vivessimo in un'era – e non siamo poi così lontani – in cui tutti i nostri ricordi, anche i più intimi, sono registrati e visibili a tutti? E se il lavoro giovanile nel nostro futuro fosse quello di alimentare, pedalando una cyclette, un mondo vacuo di reality e immagini artificiali, con gli obesi ai gradini più bassi della scala sociale? E se i morti non riuscissero più ad accedere all'Aldilà perché i punti di ascensione si sono chiusi, e iniziassero a reincarnarsi per invaderci? E se un gruppetto di delinquentelli sfigati venisse colpito da una strana tempesta e acquisisse dei superpoteri? E se l'invasione degli zombi entrasse in tv direttamente nello studio del Grande Fratello? E se un gruppo di squinternati freaks accomunati da un oscuro passato, ricevesse in contemporanea una lettera misteriosa? Tutti questi What If, e molti altri, se li sono chiesti in questi anni gli autori delle serie tv inglesi, gli unici al mondo capaci di fare i conti col fantastico innestandolo nel nostro presente, senza falsi pudori, remore o paure.


Questo manipolo di coraggiosi e creativi blasfemi sposa slang giovanile, adolescenze tormentate e citazioni cinematografiche e fumettistiche, dando una visione molto British e personale del genere. Ecco così che nascono serie sperimentali, audaci e innovative come Misfits di Howard Overman (di cui il 28 ottobre parte la quarta stagione) o miniserie come Dead Set di Charlie Brooker, Psychoville di Reece Shearsmith e Steve Pemberton, The Fades di Jack Thorne (una stagione, bellissima, purtroppo non rinnovata) e l'orwelliana Black Mirror, ancora di Charlie Brooker. Per citare solo le più recenti, e non contando le riletture di classici come Jekyll di Steven Moffat e soprattutto il magnifico Sherlock di Steven Moffat e Mark Gatiss, quest'ultimo sceneggiatore del Doctor Who ed ex membro di quella stratosferica League of Gentlemen (assieme a Reece Shearsmith, Steve Pemberton e Jeremy Dyson) che ha saputo raccogliere, potenziare e portare nel ventunesimo secolo l'umorismo surreale e grottesco dei Monty Python, unendolo all'amore per gli horror Hammer e Amicus che hanno fatto di quella britannica una grande scuola. In più, le serie inglesi sono corte, concentrate e vanno dritto al sodo senza sbavature.Mi sono chiesta a volte come mai ai nostri autori non venga mai in mente niente del genere. Alla base credo ci sia un fatto culturale: in un paese Cattolico Apostolico Romano una serie con sesso, turpiloquo e splatter, tutti insieme o separati, non passerebbe mai sugli schermi. Di sicuro non verrebbe mai sovvenzionata da nessuna tv, ente pubblico o Ministero, come invece avviene regolarmente in Inghilterra. E il genere, purtroppo, non fa nemmeno parte del nostro background. Inoltre, da noi non c'è il know-how tecnico per operazioni simili, per cui i nostri autori si sono abituati a volare basso e a pensare in piccolo, e quando magari provano a proporre qualcosa di diverso, devono vedersela con dirigenti che stanno dove stanno non per merito ma per ben altri motivi, e che di queste cose non capiscono un'acca.

E allora, e giustamente, gli inglesi ci surclassano e in molti casi superano anche gli americani: la loro tv è una palestra di vita, un commento sul nostro presente, mai banale, mai ripetitivo, ricco di sfumature e spunti di riflessione inediti. Ed è terribilmente divertente, ti porta a ridere di quanto siamo brutti, goffi, materialisti e meschini. Queste serie sono inoltre una scuola attoriale senza pari, culla di volti e corpi stra-ordinari, non belli e patinati, ma dall'intelligenza viva e palpitante. Un esempio per tutti, senza dimenticare gli altri: Daniel Kaluuya, 23 anni e una maturità espressiva incredibile. Dopo averlo apprezzato in Skins, in Psychoville e in The Fades, lo abbiamo amato senza riserve in Black Mirror, dove, nell'episodio migliore, 15 Million Merits, è riuscito a trasmetterci la sua rabbia contro il sistema, la sua frustrazione e la sua impotenza con una memorabile performance fisica.
Non so a voi, ma a me a volte piacerebbe proprio essere inglese.




lunedì 22 ottobre 2012



BOARDWALK EMPIRE

Fenomenologia di una serie di culto

Mentre vi ricordo che è cosa buona e giusta leggere anche i post che precedono questo, se ancora non l'avete fatto, torno a queste pagine che mi risparmiano una lunga e costosa psicoterapia per parlare di una serie che mi fa impazzire (tranquilli: ce n'è per tutti i gusti, ne seguo una decina in contemporanea con l'America o l'Inghilterra, compresi un bel po' di guilty pleasures). E non è nemmeno di genere horror o fantastico, anche se di scene di sangue, budella e torture ce ne sono in abbondanza.  

Boardwalk Empire di Terence Winter è un meraviglioso ritratto, tra invenzione e realtà, dell'America degli anni Venti, quella bella e terribile del Volstead Act (1919-1933), ovvero del Proibizionismo. L'era di Francis e Zelda Scott Fitzgerald, delle maschiette, degli speakeasies e naturalmente dei padroni delle città, i gangster italiani, ebrei e irlandesi: Al Capone, Johnny Torrio, Lucky Luciano, Arnold Rothstein, Meyer Lansky, Joe Masseria, Dean O'Banion. L'epoca di Eddie Cantor, dei fantasmagorici musical di Busby Berkeley, di James Cagney e Paul Muni, dei pugni di Jack Dempsey, delle ragazze delle Ziegfeld Follies, dei party scatenati, dei primi porno, degli scandali hollywoodiani, del nascente star-system, delle suffragette e della presidenza di Thomas Woodrow Wilson, Warren G. Harding e Calvin Coolidge. Un periodo storico che ha dato tanto al cinema ma che, in maniera così completa come in Boardwalk Empire, non avevo mai visto rappresentata.

Questa serie memorabile è riuscita a intrecciare alla perfezione il romantico glamour delle ambientazioni e dei costumi con la spietata realtà di un mondo senza regole e morale da cui – dopo i massacri della prima guerra mondiale e prima della Grande Depressione – si è sviluppata l'era capitalistica moderna. Dagli accordi tra i gangster e i politici corrotti per trasportare gli alcolici di contrabbando nacquero strade e opere pubbliche e fiorì un'industria sotterranea che arricchì migliaia di persone a discapito di milioni, ma che fece prosperare le fortune di una città come Atlantic City, di pari passo con l'aumentare dell'illegalità.

Al centro di Boardwalk Empire c'è un personaggio reale, romanzato come gli altri per esigenze di fiction: Nucky Thompson, il tesoriere della città, il cui vero nome era Nucky Johnson. Che si sappia, il vero Enoch non uccise direttamente nessuno, ma fu comunque un criminale, figura di grande spicco e potente influenza politica nel Partito Repubblicano, che si arricchì grazie al commercio di alcolici e alla gestione dei bordelli facendo della sua città l'unico posto in America in cui ci si divertiva e si beveva alla luce del sole in spregio alla legge.
Enoch "Nucky" Johnson

Arrivata alla terza stagione, la serie prodotta da Martin Scorsese e Mark Wahlberg non ha sbagliato un colpo, diventando sempre più ricca, complessa e corale. Nei suoi 2 anni di vita e nelle prime 5, splendide puntate della terza serie, ha infranto molte barriere e toccato, mai in modo superficiale, una marea di temi: fatti fuori due dei protagonisti, ne ha – purtroppo – freddato un altro nel primo episodio della terza stagione, ha parlato di incesto, sadismo, violenza, inganno, terrorismo irlandese, emancipazione femminile, camarille politiche e corruzione su vasta scala, e ha mostrato (siamo alla HBO, casa anche del Trono di spade) una grande quantità di atti sessuali, nudi frontali femminili e anche - vivaddio - qualche sedere maschile.
Cardine di ogni serie sono gli interpreti che gli danno vita, e qua Boardwalk Empire non ha rivali. A partire da Steve Buscemi, che ha trovato finalmente il ruolo da protagonista che gli mancava, magnetico e ambiguo nel ruolo di Thompson, meritano tutti di essere citati: a parte Michael Pitt che ci ha lasciato alla fine della seconda stagione, Gretchen Mol nei panni di Gillian è una madre confusa e indecifrabile, Kelly McDonald, in quelli di Margaret,  apparentemente indifesa emigrata irlandese, sposa Thompson ma non riesce a possederlo, e rimane scomodamente sospesa tra la fede cattolica e la consapevolezza di andare a letto col diavolo; lo stratosferico Michael Shannon si trasforma da ferreo agente anti proibizionismo a bigamo e bugiardo venditore di ferri da stiro: tormentato, posseduto, minaccioso e patetico, è un gigantesco bambino tremante che infrange tutte le leggi, umane e religiose, in cui crede.  Ci sono poi il fantastico Jack Huston, figlio e nipote d'arte, che sacrifica la sua bellezza sfoderando una performance da brivido con sola mezza faccia e mezza voce nel ruolo del fedele Richard,  il cecchino veterano di guerra sfigurato, e Shea Wigham nei panni del fratello meno dotato di Thompson, solido e tenace come un mastino.
E ancora, i magnifici gangster: Michael Stuhlbarg (ma ve lo ricordate nel ruolo del povero "Giobbe" in A Serious Man dei Coen?) è un Rothstein pallido, elegante, mellifluo e imperscrutabile, e sono state per me rivelazioni assolute Paul Sparks (Mickey "giggling" Doyle), Michael Kenneth Williams (il suo gangster nero, Chalky White, è in assoluto uno dei personaggi più belli della serie), Vincent Piazza, uno splendido e odioso Lucky Luciano (il suo colloquio in dialetto con il Joe Masseria di Ivo Nandi nel quarto episodio è da antologia) e l'inglese Stephen Graham, irriconoscibile e credibilissimo nel ruolo di Al Capone, senza alcuna pietà coi suoi pari, ma tenerissimo e commovente col figlio sordo. E' perfetto Stephen De Rosa nel suo ritratto di Eddie Cantor e ci piace moltissimo Bobby Cannavale, recente innesto nel ruolo del suscettibile mafioso psicotico, kinky e flamboyant Gyp Rosetti. Senza spoiler, basti dire che il finale del quinto episodio, di cui è protagonista, è cinema puro, ricco di sangue, violenza e furore. 
  
Quando una serie è in grado di divertire, scioccare e commuovere fino alle lacrime, quando la cura riversata in un prodotto è tanta e tale da essere visibile, episodio dopo episodio, nel più minimo dettaglio di ogni singolo costume e acconciatura, nella colonna sonora, nella regia mai banale e in ogni sorriso, smorfia, rictus sul volto degli attori, ci troviamo di fronte a qualcosa di più del puro entertainment, a un'opera che sa concedersi, e regalarci, anche il lusso di essere lenta, operatic, forte come un whisky non annacquato. Una serie per intenditori, in cui ogni colpo di pistola porta avanti la storia e non la sostituisce.














sabato 20 ottobre 2012

 WITH A LITTLE HELP FROM MY FRIENDS

Mariano Baino's and Coralina Cataldi-Tassoni's Astrid's Saints needs Miracle Makers


Stasera, invece che delle mie passioni televisive e filmiche a cui tornerò tra breve, vi parlerò di un film che ancora non esiste ma che vorrei vedere. A volte penso che i film migliori siano quelli che stanno ancora nelle teste dei loro realizzatori, e che purtroppo spesso lì rimangono. Deve essere terribilmente frustrante per un cineasta creativo non potersi esprimere direttamente con la facilità con cui lo fa uno scrittore e dover passare attraverso miriadi di intermediari per far arrivare la sua visione su uno schermo, in modo che qualcuno possa condividerla.
Detto questo, molti di voi conosceranno Mariano Baino, il visionario autore di Dark Waters e Caruncula, napoletano trapiantato a New York, e Coralina Cataldi Tassoni, la poliedrica artista, cantante e attrice italo-americana votata alla causa del cinema di genere, che abbiamo visto in film come Demoni 2, Opera e La terza madre. Bene, i due hanno riunito le loro menti diaboliche e chiedono un aiuto per raccogliere (entro il 14 dicembre) i 400.000 dollari necessari per realizzare Astrid's Saints (e già il titolo ci piace, chi saranno questi santi di Astrid? E che ci fa Astrid a NY?). Sulla piattaforma kickstarter, qui, trovate tutte le indicazioni per partecipare alla raccolta fondi e permettere a Mariano e Coralina di realizzare il loro sogno, e forse a noi di vedere qualcosa di diverso, che abbiamo contribuito a creare. 
Personalmente non amo molto il crowdfunding (sarà perché mi è costato il fidanzato?) ma in casi come questi direi che partecipare è un IM-PE-RA-TI-VO CA-TE-GO-RI-CO. Detto così suona un po' male ma il senso è chiaro, no? In fondo 10 dollari – cifra minima - sono solo 7 euro e 67, una miseria. E in cambio avrete qualcosa. Per gli eterni malfidati: niente paura, se la cifra non si raggiunge, i soldi vi resteranno in tasca e potrete comprarvici... vediamo... a Roma sono 10 caffé e mezzo, forse a Milano anche meno. E fanno male al cuore. Mentre fa bene al cuore aiutare qualcuno a realizzare un film. Considerate che se gli amici e conoscenti della famiglia di quello squinternato ragazzetto ebreo fissato col cinema, tale Samuel Raimi, non avessero partecipato alla sua colletta, non avreste mai visto La casa. Poi vedete un po' voi. A me non ne viene in tasca niente, se non la soddisfazione di avere un altro film da recensire. E se non potete neanche risparmiare quei 7 euro, passate parola tra gli appassionati. Al resto penseranno loro. Intanto, a Mariano e Coralina, il mio caloroso break a leg! 


giovedì 18 ottobre 2012

American Horror Story - Asylum

Another crazy rollercoaster ride

 

Era dall'epoca di The Kingdom, del mio adorato Lars Von Trier, che l'horror televisivo non mi divertiva così tanto. E mai e poi mai - lo giuro con la coscienza pentita di chi si è sorbita incredula due stagioni di Glee, avrei pensato che a darmi questa soddisfazione sarebbe stato Ryan Murphy. Qui siamo sul versante opposto rispetto a The Walking Dead. Non c'è l'orrore puro, serio, implacabile e feroce degli zombi e dell'assedio, ma un gioco molto raffinato sugli stereotipi, i cliché e i classici del genere, che nasce dall'amore che gli autori – Murphy e Brad Falchuk – hanno per la materia. E per fortuna, oltre a conoscerla bene, non ne sono coinvolti al punto da usarla come manifesto, a differenza di quel che Murphy ha fatto di Glee, dove il messaggio ha spesso preso il sopravvento sulla narrazione. E' per questo che possono fare leva sui luoghi comuni del genere – intesi proprio alla lettera: la casa, il manicomio – per creare qualcosa di assolutamente inedito e autentico, una compilation in cui c'è tutto o quasi il cinema horror e non solo. 
 Il titolo, in tal senso, è il primo indizio: American Horror Story, scritto in un bellissimo e iconico carattere Art Deco, è traducibile come "una storia dell'orrore americana", ma fa pensare anche a "una storia dell'orrore americano". La serie denuncia qui le sue ambizioni: raccontare una possibile storia della società americana attraverso la storia del cinema horror. Per far questo prende a pretesto due classici produttori di mostri - la famiglia nella prima stagione e l'istituzione nella seconda - per regalarci una vicenda autonoma e a sé stante costruita come un mostro di Frankenstein, con pezzi di altre creature, storie, immagini e visioni.
La prima puntata della seconda stagione non fa eccezione. Citiamo qualche titolo a caso a cui i riferimenti sono più o meno espliciti: Qualcuno volò sul nido del cuculo, Arancia meccanica, Non aprite quella porta, Occhi senza voltoIl silenzio degli innocenti, Christine, Freaks, Kalifornia, Frankenstein (anche se il mad doctor di James Cronwell sembra più un personaggio di Lionel Atwill),  i vari film sulle abduction extraterrestri, ecc. Nella suggestiva cornice del presente, gli iconici anni Sessanta sono lo sfondo su cui si svolge la seconda stagione: l'assassinio di Kennedy e la Chiesa riformata del Concilio Vaticano II hanno una parte importante nell'humus dei personaggi e della storia.
Ma tutto questo non deve far perdere di vista il fine ultimo di questa serie, che non è uno sfoggio di cultura horror fine a se stesso, ma la creazione di un fantasmagorico tunnel degli orrori, un crossover di mondi e figure ben scolpiti nel nostro immaginario. Giganteggia, su tutti, Jessica Lange. Mai così sinistra e mai così divertente (e Murphy le concede pure di essere sexy, a oltre 60 anni). Sulla trama dell'episodio e sugli oggetti feticistici di questa seconda stagione non vi rivelo niente, lasciando ad altri il compito di fare inutili spoiler. Una nota di merito va all'incipit bollente e cruento e al ritorno dei volti già noti (tra cui – annunciato proprio oggi – ci sarà anche Dylan McDermott). Mi ha fatto sorridere vedere Chloe Sevigny in ginocchio impegnata in un blow-job. E se non non avete pensato anche voi a quello vero fatto dall'attrice a Vincent Gallo in The Brown Bunny, vi siete persi qualcosa. La sua presenza è una liaison magari inconsapevole ma ideale tra questa serie e il lavoro di Lars Von Trier, del cui Manderlay l'attrice era forse il personaggio più riuscito. E' vero che siamo appena partiti e la prudenza è d'obbligo, ma, anche qua, le premesse per un giro a rotta di collo sulle montagne russe dell'orrore ci sono tutte. E ormai di Ryan Murphy, nonostante Glee, ci fidiamo (quasi) ciecamente.

lunedì 15 ottobre 2012

Holy Shit!

Il ritorno di The Walking Dead


Ebbene sì, lo confesso. Da tempo l'horror al cinema mi annoia, non mi sorprende, non mi fa più paura. In tv, invece, è tutto un altro paio di maniche. Intanto perché in America da sempre la tv via cavo (AMC, HBO, FX) è terreno di libertà e sperimentazione. Poi perché la struttura seriale permette di approfondire situazioni e personaggi, evitando il pressapochismo di un film dalla durata standard di 90 minuti.
Ed ecco che, passo dopo passo, inesorabili, i morti viventi, i demoni, i fantasmi – con l'eccezione dei vampiri che per me si fermano a Buffy - si riappropriano con violenza del nostro immaginario.
Non ho letto il comic book di riferimento e non avevo amato la prima serie di The Walking Dead. Nonostante i meravigliosi effetti speciali di un genio come Greg Nicotero e la presenza dietro le quinte di un altro grande come Frank Darabont, non mi sembrava ci fosse niente di nuovo, lo trovavo statico e i personaggi non mi erano rimasti particolarmente simpatici. Come mi sbagliavo! Ho adorato la seconda stagione col suo impianto western fino allo showdown finale, mi sono commossa nel rivedere sullo schermo Scott Wilson (Herschel), uno dei più grandi caratteristi del cinema americano (il delinquente de La lunga notte dell'ispettore Tibbs e A sangue freddo di Richard Brooks, il marito tradito e omicida di Myrtle ne Il Grande Gatsby di Jack Clayton) e ho, finalmente, capito.
Il senso del viaggio dei protagonisti di TWD sta in quello che siamo diventati: condannati a una marcia forzata per la sopravvivenza, costretti a convivere con estranei e a difenderci da gente che vuole strapparci la carne di dosso, strada facendo perdiamo un giorno dopo l'altro umanità e identità, e paghiamo a caro prezzo i momenti di pace e di stasi lacerandoci a vicenda. E' questo orrore di un mondo perduto, assediato, senza tregua, in cui ogni alba è l'ultima dell'umanità, quello che gli autori della serie esprimono alla perfezione, coniugando al futuro il vecchio messaggio romeriano: gli zombi saremo noi.
La lotta non ha mai fine, diventa un lavoro a catena di dispensatori di (seconda) morte, tra viscere, sangue e pus, la disperazione segue alla speranza, le scelte si rivelano sbagliate, l'amore, la gravidanza e la morte si intrecciano in un inestricabile abbraccio, personaggi amati ci abbandonano così come nella vita se ne vanno le persone a noi più care, dietro a ogni angolo c'è un incontro a sorpresa. In un momento in cui cinema e letteratura (Manel Loureiro, Max Brooks, David Wellington e quel mercenario di Seth Grahame-Smith) ridanno nuova linfa al mito, The Walking Dead si staglia come l'esempio più puro e cristallino di uno dei pochi sottogeneri dell'horror in grado di dispensare ancora shock, indurci a riflessioni, tenerci col fiato sospeso. Il finale del primo episodio della terza stagione, così claustrofobico e terribile, preannuncia altri grandi momenti in una serie che resterà nella storia del genere, comunque vada a finire.

sabato 13 ottobre 2012

KILLER BILLY

Il ritorno del grande Friedkin


Ma perché, se ne era forse mai andato? Ultimamente, per scelta, aveva deciso di godersi la vita con la sua amatissima (e bellissima) Sherri Lansing, ex boss della Paramount, sua moglie dal 1991. Trattato sempre come un principe, dopo il Wozzek di Alban Berg al Comunale di Firenze nel 1998, ha messo in scena moltissime opere liriche in tutto il mondo, si è dedicato ai viaggi, alla fotografia e a scrivere la sua autobiografia, che dovrebbe uscire nella primavera del 2013 (conoscendolo, sarà una lettura colta, sincera e ricca di divertenti aneddoti). Ma il suo ultimo film, Bug, adattamento di un'altra pièce teatrale di Tracy Letts, da noi era uscito direttamente in home video nonostante le ottime critiche ottenute ovunque.
Il fatto è che, superati i 70 anni, Billy Friedkin è tornato al cinema indipendente, che gli permette di sperimentare e osare - come nella sua Hollywood degli anni Settanta erano le major a fare - e quindi di divertirsi facendo quello che ama e sa far meglio. Ma non solo. Il suo è anche un ritorno alla ferocia e alla libertà creativa di due film splendidi come The Birthday Party (Festa di compleanno, 1968) e The Boys in The Band (Festa di compleanno per il caro amico Harold, 1970) tratti da due lavori teatrali – rispettivamente di Harold Pinter e Mart Crowley - a prova di bomba.
Vedendo Killer Joe, oltre al film, mi ha divertito pensare a quanto gli deve essere piaciuto girarlo e dirigere i suoi attori, soprattutto nell'ormai famosa e magistrale scena del blowjob con la coscia di pollo. Uno scherzetto da ragazzi per uno che, per vendicarsi dei continui tagli richiesti dall'MPAA, chiese al montatore Bud Smith di intervallare gli omicidi di Cruising con sequenze subliminali di penetrazioni gay, visibili in slow motion ma non a velocità normale. E che aveva costellato anche il film di una major, Jade - bellissimo e incompreso - di sequenze e gadgettistica ad alta gradazione erotica. 
Vedere Killer Joe è stato quindi un po' come rivedere il primissimo Friedkin, anche se la scrittura di Tracy Letts, che nei momenti migliori sembra un Tennessee Williams che si è appena calato un acido, non è comunque all'altezza di quella di Pinter e Crawley.
Ma c'è davvero tanto Friedkin in questa storia di white trash people. La trama, come noto, è incentrata su un poliziotto che è anche killer a pagamento e viene assunto da una famiglia pluridisfunzionale: un padre semi deficiente sposato in seconda nozze a una donna provocante e infedele (una fantastica scelta di casting: chi è più strappona di Gina Gershon?), una figlia leggermente ritardata ma pura e sognatrice e un figlio in perenne debito con gli spacciatori. Killer Joe viene chiamato per far fuori l'ex moglie dell'uomo e madre dei due ragazzi, una tossicodipendente, e permettere all'allegro gruppetto di incassarne l'assicurazione sulla vita e risolvere tutti i suoi problemi. E ovviamente niente va come previsto.
Per quanto possano apparire estremi questi personaggi e tutto quello che succede loro, se parlaste con William Friedkin lui vi convincerebbe in tempo zero di averne incontrati molti nella vita reale. 
La sua bravura sta anche, come sempre, nella direzione degli attori: a parte Chevy Chase e tutto il cast de L'albero del male, Friedkin è stato capace di rendere espressivo anche William Petersen e di ottenere emozioni autentiche da non professionisti (magari con uno schiaffone dato a tradimento, come quello rifilato a padre Bill O'Malley sul set de L'esorcista), e qui trae il meglio da un cast di ottimi caratteristi e protagonisti non sempre brillanti altrove. Primo fra tutti, ovviamente, Matthew McConaughey, di cui Friedkin sa anche ben sfruttare il particolare e pericoloso fascino da rettile.
Killer Joe è una commedia nera, un thriller, e ha un bellissimo showdown finale. E' un capolavoro? A parer nostro è un film intelligente, divertente e feroce, ma è essenzialmente un divertissement. Anche se a noi ha fatto l'impressione di un riscaldamento in previsione di qualcosa di più impegnativo, è molto probabile che sia quella del piccolo budget e della libertà assoluta la nuova dimensione di William Friedkin.
E' bello però che nel cinema dei nostri giorni, vuoto di idee e strapieno di cloni, remake, reboot, noia cosmica in 3D, tempi dilatati e azione scervellata, ci sia ancora la possibilità di vedere 100 minuti di puro filmmaking firmati da un grande come William Friedkin.Che, a 73 anni suonati (sorry ma io resto fedele alla data di nascita che lui mi ha giurato vera e che provocò il nostro unico litigio), ha ancora l'entusiasmo, l'irruenza e la chutzpah del ragazzo che negli anni Settanta aveva in pugno Hollywood e la mandò a quel paese.

venerdì 12 ottobre 2012



3 ANNI DOPO, OVVERO LIFE IS A BITCH: 
la mia storia dell'orrore.
 (For whoever may care, I'm back with a vengeance)

Tornare sul luogo del delitto, tra le pagine di un blog abbandonato, è come entrare nelle stanze deserte di una villa in rovina: i sogni, le ambizioni, le parole, gli incontri, sono sparsi qua e là come mobili rotti e polverosi che poco o nulla somigliano agli originali e ovunque c'è un fastidioso odore di muffa.
Un tempo questo blog era gestito da un uomo che mi amava e al quale ho dato tutto quello che potevo, e che dopo 6 anni, alla prima crisi, mi ha lasciato, senza spiegazioni, per una donna di quelle che ti spingono a chiederti: "what???? E io che mi ero fatta venire i complessi per aver preso 2 chili e pensavo che forse era per questo che lui mi trascurava!". Ovviamente lei l'aveva puntato e tampinato telefonicamente fin da quando ancora stavamo insieme e non si conoscevano di persona, ed erano entrambi impegnati (sono tutte storie a distanza, che ci volete fare, oggi è così che nascono, "grazie a internet").
Io non ho fatto niente per tenermelo perché il nostro rapporto era in una fase asfittica, e forse volevo anch'io che finisse, anche se speravo che lui sentisse l'obbligo morale di dirmelo subito, non di negare e confessare solo tre mesi dopo, quando la nuova storia era già avviata e io l'ho messo di fronte alla realtà dei fatti.
Come tutti i lasciati ben sanno, il fatto che il tuo/la tua ex salti direttamente da una storia di 6 anni in un'altra, che sia con la Playmate o il Maschio dell'Anno, o - come nel mio caso - con una persona di cui neanche sforzandoti riesci a capire il potere d'attrazione, in qualche modo devasta la percezione di te, del tuo passato e in parte anche del tuo presente.
E' ora di finirla. Sappiatelo: non è colpa nostra se abbiamo incontrato la persona sbagliata e se il proverbiale terzo incomodo gli ha facilitato la via di fuga, lasciando dietro di sé solo macerie. Noi valiamo. Di più. Perché siamo onesti, sinceri, bischeri magari, ma non abbiamo mai fatto niente del genere. E perché niente ci fa paura. Né la vita né il cinema dell'orrore. E in fondo sappiamo cogliere il lato umoristico delle cose anche nei momenti più bui: ad esempio io ho scoperto che oltre ai politici a cui comprano le case, ci sono anche gli uomini che si trovano coinvolti in una storia a loro insaputa.
Ho deciso di scriverne pubblicamente non per trasformare queste pagine in una valvola di sfogo per anime abbandonate ma perché oggi è l'inizio della mia nuova vita e volevo condividerlo coi miei quattro lettori, e per spiegare il motivo che mi ha spinto a riaprire questo blog.
C'è voluta la fine di una relazione per farmi dare le chiavi di accensione di Ciak si trema. Inizialmente volevo eliminarlo, poi mi è tornata la voglia di scriverci e di spiegare i motivi della mia assenza. Non troverete invece più il blog di Horror Night, più legato a una mia esperienza professionale, sul quale ho messo una bella pietra tombale.E d'ora in poi troverete poco fancy artwork qua dentro: il guru dell'elaborazione grafica era lui, io mi esprimo con le parole, e tutto il resto mi fa perdere la pazienza.
Insomma, dopo questa lunga e noiosa premessa, sappiate che continuerò a parlare di horror, cinematografico, letterario e televisivo. E del cinema che per qualche motivo mi piace, mi appassiona e mi coinvolge. Nonostante tutto continuo ad amare un genere che è ormai superato quotidianamente in ferocia e perversa fantasia dalla realtà.
La mia vita attuale oscilla tra il rischio di perdere il lavoro e ritrovarmi in mezzo a una strada insieme a mia figlia, e quello di incontrare gente che non ha alcuno scrupolo morale. Rischi che, a giudicare dalle cronache quotidiane del nostro paese, sono piuttosto concreti.
Ma io non ho paura. La vita è una stronza a volte, ma è sempre degna di essere vissuta, e ripartire da zero, come se cominciasse oggi, è una sensazione terribilmente eccitante, che ti mantiene giovane dentro e fuori.
A presto, con The Possession, Killer Joe, American Horror Story, 666 Park Avenue e tutto quello che mi/vi verrà in mente.
P.S. E la prossima volta che mi innamoro - e lo consiglio anche a voi - sarà di una persona che conosco, non di una virtuale!